Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica”
CRAIG A. MONSON
Nel 2010 ebbe un certo successo negli Stati Uniti il libro di un accademico, Craig A.
Monson, fino a quel momento noto solo agli studiosi di musicologia. Non parlava di polifonie barocche, ma di monache finite davanti all'Inquisizione, cioè di Suore che si comportano male, ora tradotto in Italia dal Saggiatore. In che modo un musicologo diventi un esperto di monache dell'Italia barocca è materia non secondaria di questo strano libro. Che non inizia neppure dalle monache, ma da un ritratto antropologico dell'Archivio segreto vaticano (e del suo bar) alla fine degli anni Ottanta, cioè quando Monson vi è approdato per la prima volta.
In questo «grande impasto caotico», i novellini vagano a tentoni, i frati puzzano, le giovani ricercatrici stanno sul chi vive, gli americani adorano prendere caffè con un erudito romano noto come "il conte" e la lobby dei veterani tace sui veri segreti dell'Archivio, per esempio che la sala lettura non chiude affatto per pranzo come dice il cartello: ma questo il vero ricercatore deve scoprirlo da sé.
CRAIG A. MONSON - SUORE CHE SI COMPORTANO MALE
Monson potrà fregiarsi di questo titolo. A portarlo all'Archivio vaticano, in quel lontano 1989, era l'interesse per un certo tipo di canto corale: quello fiorito nei conventi femminili a partire dal Cinquecento. L'argomento non è privo di fascino. Se il coro è stato per secoli appannaggio degli uomini, a partire dal XVI secolo cominciano a cantare anche le monache. I vescovi si arrabbiano. Proibiscono. Ma le monache fanno orecchie da mercante.
Pretendono permessi speciali e persino maestri di musica. Suonano. Compongono. E non solo musica sacra, ma canzoni e madrigali. Per non violare la clausura si esibiscono alle grate dei parlatori. Spesso, quando cantano nella loro cappella, attorno al convento si creano assembramenti da concerto rock. Le voci femminili offrono una sonorità nuova, una musica più seducente.
Al punto che i cori conventuali diventano una delle massime attrazioni delle città italiane. Non sembra un caso che questo fenomeno coincida con l'epidemia delle monacazioni forzate, cioè quando le famiglie italiane cominciano a ricorrere al convento per liberarsi delle femmine in eccesso (una dote matrimoniale costa molto di più di una dote monastica). Per molte ragazze (e bambine) i conventi diventano centri di detenzione a vita. E la musica un potente mezzo di evasione.
QUATTRO MONACHE IN UN PARTICOLARE DI UN DIPINTO DI GIACOMO RAIBOLINI
A cui si associa, puntuale, una nuova fattispecie di reato: comportamenti inadeguati in ambito musicale. È seguendone il filo che Monson si è imbattuto nelle storie da cui nasce questo libro. Non tutte parlano di musica. Tutte raccontano una specifica reazione alla vita claustrale. Caterina Bavona, educanda al convento della Santissima Annunziata a Lecce, nel 1646 chiede al vescovo locale di poter ballare la tarantella come cura alla malattia «della tarantola», e propone anche di ingaggiare dei musicisti per «due giorni» di balli di gruppo, visto che altre consorelle soffrono dello stesso male.
Giovanna Vittoria Ottoni e Maria Francesca Cavalupi, quando le altre suore dormono, imbandiscono banchetti nel parlatorio del convento e poi - travestite da uomo - fanno degli spettacolini per i loro ammiratori. Le monache di Santa Chiara in Acquapendente, nel Lazio, si lamentano con i superiori dello smisurato affetto che la loro badessa nutre per una certa cagnolina; la questione è degenerata, dicono, da quando in convento è arrivato anche un cagnolino maschio «di cui sarebbe troppo lungo raccontare gli scandali». Se gli animali, specie maschi, sono vietati nei monasteri da tempo immemore, ora vengono banditi anche gli strumenti. Pare che il convento di San Lorenzo a Bologna ne avesse un arsenale: liuti, viole, violini, contrabbassi, arpe e strumenti a fiato.
MONACHE
Nel 1583 il padre generale dei Canonici Lateranensi ordina che vengano requisiti, proibisce la musica, pena la scomunica, e raccomanda discrezione su una certa «faccenda della viola». Su questa faccenda, nei mesi successivi, l'Inquisizione avrebbe interrogato più di cento monache. Nel convento era scomparsa una viola. Per ritrovarla, le suore si erano viste costrette a rivolgersi al diavolo.
E, già che c'erano, gli avevano chiesto dei favori extra, come ottenere l'amore di certi uomini che frequentavano il parlatorio, o imparare l'arte di cantare e suonare. Nulla, tuttavia, di fronte all'audacia di Cristina Cavazza. All'alba del 27 giugno 1708 la madre portinara di Santa Cristina della Fondazza a Bologna trovò la catena del convento aperta. Si pensò a dei ladri. Qualche notte dopo, però, la sconcertante verità venne a galla.
MONACHE
Una monaca professa, suor Cristina, nota per le sue potenzialità da cantante solista, aveva preso l'abitudine di sgattaiolare fuori dal convento di notte, travestita da abate, per recarsi all'opera. Parliamo di una donna che, entrata in convento bambina, metteva il piede fuori per la prima volta dopo quindici anni di clausura, e lo faceva da sola, di notte, travestita da uomo. Un complice la attendeva al teatro Malvezzi: don Antonio Giacomelli, sacerdote del vicino paese di Piancaldolo. È degno di interesse che i due, probabilmente, non avessero neppure una relazione carnale.
Se è vero, siamo davanti a un secondo livello di ribellione: libertà delle relazioni umane in spregio alle rigide aspettative del mondo. Il processo a Cristina Cavazza si svolse in segreto perché la vicenda rompeva troppi schemi. La Curia temeva meno gli scandali sessuali di una così smisurata fantasia. E a proposito di fantasia, meritano una menzione le domenicane di San Niccolò di Strozzi, a Reggio Calabria.
MONACHE
Non erano una comunità come le altre, ma un'intera famiglia di aristocratiche, quasi tutte sorelle e cugine, che per volontà testamentaria del capofamiglia nel 1644 erano state destinate al velo. Quel gregge di bambine, venticinque anni più tardi, avrebbe dato fuoco al convento per non vederne più le mura. Un crimine «non ancora succeduto in altra parte della Cristianità».