Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano”
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Crediamo di sapere tutto della simpatia, e forse siamo anche convinti di essere simpatici, e se qualcuno non è d' accordo lo giudichiamo male (primo indizio di antipatia: non capire le ragioni degli altri). Ma come spiega un prezioso quanto breve libro appena uscito, Perché siamo (o non siamo) simpatici (Il Mulino, 136 pagg., 11 euro) del neuropsicologo Andrea Stracciari, la simpatia ha molti misteri. Innanzitutto ha almeno tre significati.
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Uno, più antico, indica l' affinità e lo scambio che gli elementi della natura hanno tra loro. L' antica teoria medica degli umori, l' alchimia, la magia, si fondavano su questa idea che parti del cosmo fossero comunicanti "per simpatia". Ad esempio, intervenendo su un' arma, si poteva risanare la ferita da essa cagionata.
Questa interpretazione è stata quasi completamente screditata dalla rivoluzione scientifica. La simpatia da allora ha due significati: la capacità di sintonizzarsi con l' umore, il carattere, le passioni e le disposizioni del prossimo, e la capacità di suscitare questa sintonia, di provocarla. In entrambe queste operazioni, i maestri dai quali non possiamo che imparare, ci dice Stracciari, sono i bambini, anche quelli inferiori ai 5 anni, quando ancora la struttura del sé non si è formata e il piccolo non sa separare il suo Io da quello degli altri (e questo è l' effetto rivoluzionario della simpatia anche tra adulti).
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Uno dei segnali della simpatia, di cui i bambini, privi di remore o di preoccupazioni sociali, fanno abbondante uso, è il sorriso. Il sorriso è un "marcatore somatico", per riprendere un termine del neuroscienziato Anthony Damasio, che contraddistingue il simpatico dall' antipatico, il quale non sorride, ma ride sguaiato, ghigna o giace in un tombale mutismo.
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MIGLIORARE Studiando i bambini si è ipotizzato che la simpatia abbia cause innate, e che si nasca con certe strutture cerebrali particolarmente favorevoli. I neuropsicologi parlano addirittura di "cablaggio" del cervello in modo da essere simpatico. Ecco perché, ancora piccoli, ineducati, incolti, ci sono umani strepitosamente simpatici e altri, purtroppo per loro, un po' meno (anche se non proprio antipatici).
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Dunque simpatici si nasce e non si diventa? Non proprio: anche se il nostro cablaggio (e dunque il nostro dna) non è stato particolarmente dotato nel senso della simpatia, questa si può accrescere. Come? Esattamente come si coltiva il gusto, e impariamo, ad esempio, ad apprezzare la musica classica, la buona cucina, l' arte contemporanea, anche se di primo acchito non ci attiravano per niente. Ma come si può educare la simpatia? Coltivando la nostra intelligenza sociale.
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Facciamo un esempio. Se ci sentiamo perseguitati da qualcuno, o da molti, o anche semplicemente dalla sorte, giocoforza diventeremo chiusi, aggressivi, risponderemo bruscamente, insomma estremamente antipatici.
Se invece osserviamo, come dice Stendhal nel suo romanzo Armance, che non è vero che gli altri o il mondo ce l' hanno con noi, presunte vittime di una congiura o un complotto invisibili, ma che i nostri guai dipendono dal fatto che il mondo è congegnato male, e che nel suo disordine qualche volta ci infligge dei dispiaceri (come a tutti), ecco che smetteremo di attribuire un disegno ostile e persecutorio a tutto ciò che ci circonda. Basterà questa semplice riflessione, insomma, per renderci più simpatici, più aperti verso gli altri.
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AUTOSTIMA E SICUREZZA Ancora, la simpatia è in rapporto con la sicurezza di sé. L' autostima - che però non deve essere eccessiva, altrimenti è foriera di antipatia - è fondamentale per essere simpatici. L' antipatico non solo non prova autostima (anche se, comportandosi aggressivamente, può risultare arrogante) ma innesca un circolo vizioso: i suoi stimoli sgradevoli verranno ricambiati da risposte altrettanto sgradevoli, e questo lo radicalizzerà nella sua antipatia. In alcuni casi, purtroppo, l' antipatia è un disturbo psichico.
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Ad esempio quando si è affetti da alessitimia (anche detto analfabetismo emotivo). Questo disturbo impedisce di riconoscere le proprie emozioni, di dar loro un significato, e di elaborarle.
Così, se qualcuno si comporta calorosamente nei miei confronti, mi viene incontro per abbracciarmi dopo tanto tempo che non mi vede, oppure se ricevo un regalo, io provo un' emozione (e simultaneamente subisco tutta una serie di reazioni psicofisiche) ma non riesco a collegarle a un significato di benevolenza e di altruismo. Logicamente, non saprò rispondere in modo "simpatico".
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Un esempio di analfabetismo emotivo si trova nel film Qualcosa è cambiato, con Jack Nicholson, che interpreta un nevrotico e solitario scrittore di romanzi rosa. Nella tavola calda dove si reca sempre, la nuova cameriera, non conoscendolo, è gentile con lui, ma lui non sa "leggere" la gentilezza dietro quelle sue premure, anche se, non essendo anaffettivo (che è un caso ben più grave) percepisce certe emozioni.
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Nel prosieguo della storia, imparerà a riannodare quelle emozioni con il loro significato positivo, e diventerà un po' più simpatico, anche se non simpatico quanto un individuo "cablato" ottimamente.
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