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Giuliano Aluffi per “il Venerdì - la Repubblica”
Mangiare una carta di credito non è un mirabolante trucco da fachiri, ma la normalità – inconsapevole – delle nostre vite: lo facciamo tutti una volta a settimana. Perché in sette giorni ingeriamo, in media, ben cinque grammi di plastica, l’equivalente, appunto, di una carta di credito.
Lo dice uno studio che l’Università di Newcastle (Australia) ha realizzato per il Wwf, prendendo in considerazione 50 studi provenienti da vari Paesi del mondo. «Facendo una media globale, ogni settimana assorbiamo 1.769 particelle di plastica dall’acqua, 182 dai frutti di mare, 10 dalla birra e 11 dal sale» spiega il biologo marino Silvio Greco, dirigente di ricerca alla Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e docente di Produzioni agroalimentari e sostenibilità ambientale all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, nel Cuneese.
Nel suo saggio La plastica nel piatto (Giunti Slow Food) Greco ci ricorda che la plastica ha ormai colonizzato ogni luogo, dai ghiacci dell’Antartide ai fondali marini, all’intestino umano. E non è strano, visto che dal 1950 la produzione è cresciuta di duecento volte, e non si ferma: ai ritmi attuali, nel 2030 si produrrà il 40 per cento in più di plastica rispetto a oggi. «Dobbiamo prestare sempre più attenzione alle nostre tavole» dice Greco. «Le microplastiche che ingeriamo hanno soprattutto la forma di ibre, e si trovano per lo più nell’acqua imbottigliata: provengono dalle stesse bottiglie».
LA RICERCA TEDESCA
Nel 2018, in Germania, è stato misurato il contenuto di microplastiche di 38 acque minerali: 26 con bottiglie in Pet (polietilene tereftalato), di cui 15 a rendere e 11 monouso, 9 in bottiglie di vetro e 3 in contenitori di cartone rivestito. Sono state trovate in media 118 particelle per litro (per l’84 per cento di Pet e per lo più con dimensioni tra 5 e 20 micrometri) nelle bottiglie in Pet multiuso e 14 per litro nelle bottiglie monouso.
Nelle bottiglie in vetro i microframmenti di plastica (provenienti dal tappo) erano invece in media 50 per litro e nei contenitori cartonati 11. «I contenitori di plastica multiuso rilasciano più particelle perché si logorano» osserva Greco. «Un altro recente studio, dell’Università di Catania, su dieci 10 marche di acqua minerale di largo consumo in bottiglie di Pet, è stato il primo a valutare – grazie a nuovi strumenti – le particelle al di sotto dei 10 micrometri.
È stata trovata plastica – con concentrazione media di 656 microgrammi per litro – in tutti i campioni considerati. E si è notato che la presenza è correlata al pH dell’acqua: maggiore è l’acidità, più plastica si stacca dalla bottiglia. Le plastiche più rigide causano il rilascio di pochi frammenti grandi, quelle più morbide di molti frammenti piccoli».
Meglio l’acqua del rubinetto: qui i microframmenti di plastica sono 22 volte di meno, ma comunque ci sono: in una ricerca del 2018 della State University di New York ne sono stati trovati nell’81 per cento dei campioni provenienti da acquedotti di 14 Paesi, tra cui l’Italia. Né è un rimedio rifugiarsi nella birra: studi tedeschi e americani su marche da supermercato hanno trovato ibre di polimeri in tutti i campioni.
Nessuna relazione tra la loro quantità e quella nelle fonti d’acqua utilizzate: quindi la plastica nella birra potrebbe essere dovuta soprattutto alla lavorazione. E le ibre non risparmiano neppure il miele: uno studio tedesco le ha rintracciate in molti campioni, dovute agli strumenti usati nella lavorazione, ma anche al trasporto di granuli di plastica nell’alveare da parte delle api.
MOLLUSCHI E SALE MARINO
«L’acqua ha un ruolo cruciale nell’assorbimento di microplastiche da parte del 55 per cento delle specie marine di importanza commerciale» spiega Greco. «Tra queste ostriche, vongole, gamberetti, scampi, acciughe, sardine, aringhe, sgombri e merluzzi. Mangiamo plastica – circa 0,5 grammi a settimana – soprattutto attraverso i molluschi, visto che li consumiamo interi, mentre i pesci vengono eviscerati».
E l’acqua porta la plastica anche nel sale da cucina: «Diversi studi suggeriscono che le concentrazioni maggiori (550-681 particelle/kg) si trovano nel sale marino» spiega Greco. «Meno contaminati i sali di origine lacustre (43-364 particelle/kg) e rocciosa (7-204 particelle/kg)». Per il cibo che acquistiamo al supermercato in confezioni di plastica contano anche temperatura e tipo di alimento: «Gli alimenti grassi assorbono concentrazioni superiori degli additivi con cui si rende la plastica più resistente o impermeabile» spiega Greco.
«Tra i plastiicanti più usati ci sono gli ftalati che,non avendo un forte legame chimico con la plastica, migrano dalla confezione all’alimento e possono interferire con il funzionamento degli ormoni, per esempio abbassando il testosterone». Uno studio cinese del 2019 mostra che la migrazione degli ftalati dal packaging al cibo aumenta con la temperatura degli alimenti e con la durata dell’impacchettamento: i cibi più vicini alla data di scadenza mostrano il maggior accumulo. Meglio quindi orientarsi su quelli più freschi. Certo, servirebbero forse delle norme per regolamentare il settore.
«Il problema è che non c’è ancora un numero apprezzabile di studi sugli effetti di tutta questa plastica sulla salute» sottolinea Greco. «Ecco perché abbiamo presentato all’Unione Europea un progetto di ricerca che unisce il mio istituto e il Sant’Orsola di Bologna, con l’oncoematologo Pier Luigi Zinzani». Si veriicherà, tra le altre cose, la presenza di microplastiche nel fegato. «I nostri studi sui pesci ci dicono che le microplastiche riescono a superare la barriera ematica e a inire nel fegato: potrebbe accadere anche nell’uomo».
MAL DI PANCIA DA POLISTIROLO
«A oggi sappiamo (studio dell’Università di Napoli, 2016) che le nanoparticelle di polistirolo fanno salire la produzione di due proteine infiammatorie associate a patologie gastriche». spiega ancora Greco. «Le particelle più piccole possono essere assorbite dalle cellule e migrare nei polmoni e altri organi, e innescare risposte immunitarie localizzate. Il Pvc poi può anche depolimerizzarsi, rilasciando monomeri di cloruro di vinile, fattore di rischio per i tumori». Soluzioni? «Rinunciare alla plastica è un’utopia. Bisogna ridurla, alzare la percentuale del riciclo e bandire il monouso». Oppure sulla tavola sarà sempre più dificile distinguere un piatto di plastica da quello che ci sta sopra.
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