Gianluca Marziani per Dagospia
09. of lilies and remains congo serie infra
Il vostro marziano riprende il giro nomade tra mostre che mappano l’Italia, cercando quei segni terrestri con cui ampliare il mio dottorato sul carattere artistico che avete sviluppato nel corso dei secoli, producendo risultati genetici che stupiscono le popolazioni aliene degli altri sistemi solari.
Mi colpisce quel modo solamente vostro di legare la vita all’arte, ad esempio quando i fotoreporter documentano le tragedie di guerra con una capacità magistrale di cogliere l’essenza pittorica dietro la morte. E’ un fattore che non ha paragoni, solo voi carezzate l’orrore e la violenza con amorevole cura estetica, una sacralità che in un certo senso riabilita la morte dal suo dovere genetico, innalzandola tra le luci straordinarie del mondo, rendendo onore allo sguardo che sublima il dramma con abiti metafisici.
08. yayladagi refugee camp hatay province turkey serie heat maps
Il ragionamento sul senso del fotoreportage in tempi pandemici e digitali si è acuito al MAST di Bologna tra le stampe dell’irlandese RICHARD MOSSE, uno di quei fotografi che s’interrogano sul rapporto tra verità e finzione, natura e artificio, realismo e fantasia. Pensiamo alla serie Infra, realizzata nella Repubblica Democratica del Congo tra il 2010 e il 2012.
11. souda camp chios island greece serie heat maps
Per questi scatti l’autore ha usato la Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi (per stanare i nemici mimetizzati ma ormai è fuori commercio). Il risultato, registrando la clorofilla nella vegetazione, è quello di trasformare le geografie della morte in un tripudio di rosa e rossi accesi, come se ci trovassimo dentro le foreste di Avatar o in qualche paesaggio onirico tra Lewis Carroll e Terry Gilliam.
Lo stesso Mosse racconta: “Volevo inserire questa tecnologia in una situazione critica per sovvertire le convenzioni delle narrazioni mediatiche ormai cristallizzate, mettendo in discussione la modalità con cui siamo autorizzati a dare forma a questo conflitto dimenticato…” L’impatto superficiale dell’immagine è lo stesso dell’aurora boreale: un’improvvisa colorazione stupefacente, un flusso straordinario e cullante che, in realtà, nasconde fenomeni atmosferici di terrificante violenza.
12. kosovo kosova ii podujevo republic of kosovo
I paesaggi congolesi sembrano l’idillio di un eden geografico, un paesaggismo naturale che evidenzia l’anomalia ma che, pian piano, inizia a mostrarci l’orrore di un maleficio inquinante, la devianza dalla tavolozza naturale alle colorazioni di un trip acido, perverso, distruttivo. Dentro quel rosa succoso osserviamo il pantone della morte al lavoro, un’essenza acrilica che oggi Ingmar Bergman potrebbe usare per un remake de “Il settimo sigillo”, colorando la spiaggia degli scacchi durante la più grossa sfida odierna: quella tra mondo analogico e universo digitale, intelligenza umana e intelligenza artificiale, religione e scienza al tempo degli algoritmi.
Sotto il titolo DIsplaced (a cura di Urs Stahel) si leggono quattro parole: migrazione, conflitto, cambiamento climatico. Sono i tre lati di un triangolo narrativo con cui Richard Mosse ingloba alcuni luoghi sensibili sul Pianeta Terra, oggetto di metodiche riflessioni fotografiche che sconfinano nel linguaggio video. Nel 2009, ad esempio, realizzò il ciclo Breach, una serie sull’occupazione irachena dei palazzi imperiali di Saddam Hussein da parte dei soldati americani.
13. pool at uday's palace salah a din province iraq serie breach
Qui non è il colore a spiazzare ma la relazione tra figure e contesto: le scene di quiete tra soldati in pausa nascondono una follia che è la stessa lotta al terrorismo, una guerra di colpevoli senza colpa e innocenti senza innocenza, l’ennesima distruzione che alimenta la prossima costruzione, dentro un delirio di nemici funzionali e amici disfunzionali, dove non si capisce più la fine del bene e l’inizio del male.
Mosse ha un dono prezioso che è quello di trasfigurare il reale nel suo doppio mimetico e atmosferico, usando i trucchi ottici dell’immagine emozionale, cogliendo le nature sensibili della vista, catturando lo sguardo attraverso i suoi spostamenti semantici. Una volta avvinghiato lo spettatore al codice visivo, inizia ad agire il metabolismo concettuale delle immagini, quel lavoro silente che scava sotto le apparenze, dentro le cause invisibili, lungo i filamenti morali che guidano la disciplina nomade del fotoreporter.
16. platon congo serie infra
La mostra e il catalogo evidenziano proprio le trasformazioni del reportage fotografico ai tempi dei social media. Molte questioni un tempo consolidate oggi prendono forme complesse che incarnano il gigantismo mediatico in cui siamo immersi. Sarebbe assurdo vincolare un linguaggio digitale ai modelli del Novecento, altrettanto assurdo non sfruttare il potenziale espressivo che la tecnologia regala alle arti visive.
Oggi la fotografia incarna lo strumento collettivo per eccellenza, un mezzo popolare che lo rende, per paradosso, lo strumento più ambiguo per chi cerca verità univoche e certezze granitiche. Il fotoreporter deve per forza distinguersi nell’oceano di basse definizioni e software di semplificazione: e allora serve più che mai un imprinting d’autore purissimo, quel quid iconografico che circuita la fotografia nel codice delle grammatiche personali e spiazzanti, riconoscibili nel loro unicum processuale.
14. vintage violence congo serie infra
Un modus sintattico e teorico che qui digerisce influenze concentriche, in arrivo dalla pittura di paesaggio e dal cinema fantasy, dai maestri del colore come William Eggleston e dagli sguardi panoramici dell’arte cinese. Questo e molto altro dietro la qualità rigorosa con cui Richard Mosse trasforma il mondo a immagine e somiglianza dell’invisibile.
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Gianluca Marziani
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