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    “DO YOU LIKE GOOD MUSIC?” – CARLO MASSARINI RACCONTA IL FANTASTICO CONCERTO DI LITTLE STEVEN, SPALLA DI SPRINGSTEEN, A VILLA ADA: “UNA LEZIONE DI STORIA SUONATA DA 14 MUSICISTI SOPRAFFINI. UNA LUSSURIOSA CAVALCATA ATTRAVERSO DECENNI DI MUSICA BIANCA, NERA, METICCIA” (VIDEO) – “VIVIAMO IN UN MONDO CAPOVOLTO, IN CUI GLI "AMICI" DI MARIA E I COMUNISTI COL ROLEX RIEMPIONO GLI STADI E LITTLE STEVEN CHE FA 500 SPETTATORI”


     
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    Carlo Massarini per www.lastampa.it

     

    Non capita spesso una settimana così. Ma se c’è un momento in cui può accadere, può essere solo di luglio. Prima e dopo, qualche concerto qui e là. A luglio no, ogni sera, in parecchie città italiane, ce ne stanno uno, due, anche tre, con l’immancabile dj set. Se poi cambi città, vuoi vincere facile.

     

    La cosa straordinaria di questa avventura che ha dello psichedelico, Carlo caduto nel Paese delle Meraviglie, è che sono tutti diversi. Il che ci fa capire quanta diversità c’è nella musica, quale bellezza è poter cambiare continuamente ascolto, quanti filoni uno può percorrere e trovare cose che alla radio o tv oggi non sanno nemmeno cosa sono.

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    La lettura sarà lunga, lo so. Ma io vi racconto di sette notti, e voi volete sapere tutto in un attimo? Le foto? È una scaletta di un programma, dai. Mettetevi comodi e fatevi portare.

     

    Giorno 1 – Little Steven and the Disciples of Soul – Villa Ada, Roma 

     

    Ci sono sere che non vorresti essere da nessun’altra parte, se non dove sei. Quando Little Steven entra sul palco, prende il microfono e urla, stentoreo, ‘Do you like good music ?” con il coro che rimbalza “Sweet Soul Music!”, forse la mia canzone soul preferita, di Arthur Conley, singolo Atlantic comprato a 16 anni e ballato tutta una vita, mi sembra di esser cascato in un miraggio. La migliore apertura di concerto che abbia mai visto, da due metri. Partono così i concerti in Paradiso? Perché questo è il Paradiso, vero? 

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    La Rock’n’Soul Review di Little Steve, l’indomita spalla di Springsteen (alle prese adesso con il suo concerto solitario a Broadway, cioè esattamente l’opposto), l’orgoglioso portatore della torcia della musica con cui è cresciuto, è uno spettacolo fantastico.

     

    Una lezione di storia di due ore suonata da 14 musicisti sopraffini. Una sorta di lussuosa, e lussuriosa, cavalcata –perlopiù ballabile, e oh se è bello ballare il r’n’b invece della techno- attraverso decenni di musica bianca, nera, meticcia, la musica migliore di quegli anni così lontani, in cui c’era un senso di innocenza, di speranza in un futuro migliore (quella c’è sempre, anche se crederci è diventato più difficile).

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    Little Steven è un evangelista, conosce la Storia, tutto quel filone che si snoda fra Stax e Motown, i 45 giri di Gary US Bonds e gli altri r’n’rollers anni 60, canzoni immortali perché semplici, dirette, che sapevano parlare al cuore dei teenagers di allora. Sogghignando a metà spettacolo, riporta indietro a quegli anni: “quando abbiamo cominciato, eravamo incerti, pensavamo che tutte le canzoni migliori fossero state già scritte. Beh, era vero”, ridacchia, “poi ne abbiamo aggiunta qualcuna anche noi…”.

     

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    Per certi versi Steven Van Zandt è l’anima r’n’b del vecchio amico diventato superstar, un E-Street-er che lo accompagna da 40 anni e che, in proprio, non può certo fare qualcosa di molto diverso. Sono cresciuti insieme nei club del basso New Jersey, lui Bruce e SouthSide Johnny, il pentolone dove pescare col mestolo è quello, e la sua band, I Discepoli del Soul, vale la E-Street Band ( e non è complimento da poco): cinque fiati a supporto, tre coriste con pettinatura afro e vestiti da ‘going to a go-go’ anni 60, ritmica impeccabile e potente, una seconda chitarra solista, due tastiere, non manca nulla.

    LITTLE STEVEN I SOPRANOS LITTLE STEVEN I SOPRANOS

    E se la sua voce non è quella del Boss, poco male, non ce l’ha nessuno, sul pianeta Terra. Ma Stefanello non vuol fare il parente povero, la scelta dei brani e la passione sono suoi, e il suono non è grandioso, di più.

     

     E se leggete i titoli, sono anche loro un misto di visual e di epico, titoli che aspettano solo una grande melodia e un cuore così per essere cantati: Lying On A Bed Of Fire, Love On The Wrong Side Of Town, Standing In The Line Of Fire, I Saw the Light, Salvation, quanta salvezza c’è davvero in questi inni che ti gonfiano il petto, muovono i piedi e fanno tremare i polsi?

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    Il suono è una muraglia che ti si riversa addosso, quando su uno fondo rosso fuoco partono le chitarre su una melodia che ricorda i western all’italiana, il suono è stordente, da quanto è bello e incendiario. 

     

    Ma Steve sa anche ‘smorzare ‘e lights’, direbbe Arbore, e allora tutto rallenta, racconta di quando agli angoli delle strade dei quartieri italo-nero-americani i ragazzi formavano gruppi vocali per intonare il doo-wop, quella musica a cappella che riempiva l’aria dei barbershop e dei quartieri popolari negli anni 50, e che è stata uno degli affluenti del grande fiume del rock’n’roll.

     

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    “Ricordo quella vibrazione che avveniva quando più di una voce si univa. Sapevano che quella magia non potevano ottenerla da soli. Il problema era che negli anni 60 nel mio Paese c’era la radio bianca per i bianchi e la nera per i neri.

     

    Quando gli artisti andavano a Sud a suonare, c’era una corda che divideva in due la sala, bianchi di qua neri di là. E c’è voluto il coraggio di alcuni dj’s come Alan Freed per suonare alla radio le canzoni nere per i ragazzi bianchi.

     

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    E quando i ragazzi bianchi e i neri si sono messi insieme, hanno creato il r’n’r, e l’industria, ed è la ragione per cui siamo qui oggi. Mi manca un po’ quell’innocenza, e mi mancano quelle armonie da cantare insieme, ne potremmo fare uso adesso… harmonising with each other, instead of fighting on anything…” e scivola dentro un doo-wop arrangiato e irrobustito, The City Weeps Tonight, le tre Divas of Soul che intonano quei cori con voci di seta, tutto ‘ooohs’ e ‘aaahs’, ed è capsula del tempo, ritorno alle radici del rock, con sentimento.

     

    I Discepoli seguono il loro Maestro con la festosità di una Rock’n’Soul Revue, e non è un attacco frontale, di quelli che non prendono prigionieri, è un fiume di musica, che tocca città diverse e in ognuna trova ispirazione: risali il Mississipi ascoltando grandi ballatone come Until the Good Is Gone, puro Stax con Steve che rappa come un reverendo nel sermone in una Chiesa la domenica mattina, “I wanna hear you say Yeah!” Le Divas a rispondere “Yeah! Yeah! Yeah!”…

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    “Ci dobbiamo riunire in queste cattedrali (che bella metafora!), dobbiamo stare uniti nello spirito, per fronteggiare quel mondo pazzo là fuori dobbiamo usare tutto l’amore con cui verremo via questa sera….”. Poi loda la veracità dei suoi Discepoli … “Non abbiamo computer (faro sul percussionista), né drum machines (faro sul batterista), né abbiamo il playback” (e un’ovazione accoglie lo spotlight sulle tre Dive). 

     

    Ci sono momenti tenerissimi, come quando una fisarmonica introduce Princess of Little Italy, dedicata al senso delle tradizioni “che qui, in quella che chiamiamo Old Country, il nostro continente di origine, durano centinaia di anni. Da noi passano subito”.

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    E grandi festone etniche – e amare- come il suo Bitter Fruit, storia di braccianti sfruttati che si ribellano, un mex-rock che fa ballare e pensare. Non ci sono gli altri momenti ’politici’ di Steve, ma nei bis c’è una cover difficilmente riconoscibile di un brano dei primi U2, Out Of The Darkness: il messaggio è chiaro, la cosa migliore da fare di questi tempi così duri è stare insieme, godere del potere della musica, perché in questo mondo fuori controllo “insieme troveremo la nostra strada là fuori, nel buio”.

     

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    Sono passati 40 anni da quel ‘Darkness on The Edge of Town’ di Bruce che lui aveva co-prodotto: il buio rimane una metafora tanto quanto la luce, in questa generazione di (grandi) artisti, da lui a Patti, da Bruce a Jackson (e tanti altri), che ci ricordano che esistono dei valori, che sono a rischio, che bisogna lottare e stare uniti. E credere in qualcosa di più alto. 

     

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    Alla fine, in platea c’è quasi una reunion di parecchi vecchi amici, le cose buone tirano anche i pigri fuori dalle tane. C’è la sensazione che viviamo in un mondo capovolto, in cui i pischelli di Maria e i comunisti col rolex riempiono gli stadi, e Little Steven fa 500 spettatori.

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    Non possiamo che ringraziare il mecenatismo artistico del promoter Claudio Trotta, grazie Claudio, ma certo c’è materia per riflettere (next time). Steve, che nel backstage (più simile a un campeggio) si fa trovare in una sorta di incrocio fra un pigiama e un vestito da Jersey Shore, è paziente per i selfie e parla con tutti.

     

    TROTTA CON SPRINGSTEEN TROTTA CON SPRINGSTEEN

    Racconta di come negli ultimi tanti anni:, a parte con Bruce, abbia suonato dal vivo poco: “Ho cominciato a far l’attore nel ’99, fai i ‘Sopranos’, fai ‘Lilihammer’ e bam!, passano vent’anni e neanche te ne accorgi”. Ma sta uscendo un triplo ‘Soulfire Live!’, aria di must. Mi presento e faccio un gesto di inchino … “a un professore, che ci ha accolto in una masterclass di musica, e di vita”. Miglior concerto dell’estate. Finora.

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