Cristina Marconi per il Messaggero
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La fine politica di Theresa May è stata nell' aria per anni ed è un segno dei tempi il fatto che si sia materializzata solo ieri mattina intorno alle 10. La premier è apparsa davanti a Downing Street con un tailleur rosso fiamma, simile a quello un po' più scuro indossato da Maggie Thatcher in circostanze simili nel 1990, e la voce con cui ha annunciato le sue dimissioni da composta e decisa si è fatta via via più commossa fino a lasciare spazio a copiose lacrime.
«È stato l' onore della mia vita» servire il paese, ha spiegato, esprimendo il «profondo rammarico» di non essere riuscita a portare a termine la Brexit, missione impossibile che ora ricadrà sulle spalle di qualcuno con energie fresche e, se vorrà, con il grosso del lavoro già fatto. La May non sarà più leader dei conservatori dal 7 giugno prossimo e resterà a Downing Street per sbrigare gli affari correnti fino a quando il partito non avrà trovato un successore per la fine di luglio.
LA VISITA DI TRUMP Sarà lei a fare gli onori di casa quando tra il 3 e il 5 giugno il presidente statunitense Donald Trump sarà in visita nel paese.
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L' ultima volta, l' anno scorso, l' inquilino della Casa Bianca era stato molto esplicito nel fare un endorsement assai irrituale all' ipotesi di Boris Johnson a Downing Street.
Dopo tre bocciature dell' accordo con Bruxelles, due rinvii della Brexit rispetto alla tabella di marcia originale e il fallimento del negoziato con i laburisti, è stato il tentativo di tendere la mano ai sostenitori del secondo referendum a dare il colpo di grazia all' ex ministro degli Interni, sopravvissuta a un voto di sfiducia da parte del suo partito nel dicembre scorso ma ormai così debole che ieri neppure i consiglieri più stretti, si narra, hanno cercato di trattenerla.
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Sebbene avessero scelto quasi tre anni fa di uscire dalla Ue, i britannici hanno comunque dovuto votare alle elezioni europee che si sono svolte giovedì nel paese e i cui risultati verranno resi noti domenica sera, con quella che si preannuncia una disfatta epocale per i Tories.
Tanto che tutti, anche tra i moderati del partito, si sono trovati d' accordo sul fatto che ci vogliono energie nuove e una nuova linea per portare il paese fuori dalle secche e recuperare la fiducia dell' elettorato prima di un' eventuale voto generale che, in un clima così febbrile, non si può escludere e che potrebbe aprire le porte di Downing Street al laburista Jeremy Corbyn e quelle di Westminster al neonato Brexit Party di Nigel Farage, alle stelle nei sondaggi. Anche gli europeisti LibDem, che dovrebbero uscire bene dal voto europeo, sono alla ricerca di un nuovo leader, visto che Vince Cable ha annunciato che se ne andrà il 23 giugno prossimo. Da Bruxelles il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha fatto sapere di aver seguito le dimissioni «senza gioia personale» perché «amava molto e apprezzava la premier», «donna coraggiosa per la quale ha un grande rispetto».
GLI ALTRI LEADER Il premier olandese Mark Rutte ha dichiarato che l' accordo con la Ue «rimane sul tavolo», mentre la Francia di Emmanuel Macron ha usato toni duri nel chiedere «un chiarimento» su quello che il Regno Unito vuole. Tra i candidati alla successione della May nessuno vuole un secondo referendum e nessuno vuole ribaltare la Brexit. Secondo un report di Goldman Sachs rimane un 40% di possibilità che la Brexit non si faccia e un 15% che si finisca con il no deal, mentre Standard&Poor' s vede invece in aumento il rischio di una Brexit più netta. Ma ormai il processo non è più nelle mani della May, che rassegnata e sicuramente sincera, ha garantito: «Ho fatto del mio meglio».
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CORSA ALLA SUCCESSIONE
C.M. per il Messaggero
C' è gente che aspetta questo momento da tre anni. Come Boris Johnson, ex ministro degli Esteri dal repertorio infinito di tiri mancini, favorito dai sondaggi nella corsa alla successione della premier dimissionaria Theresa May. YouGov lo dà al 59% e le ragioni sono solide: ha un seguito ampio tra gli attivisti del partito e, sebbene tra i Tories ci sia gente che lo odia a morte, è indubbio che, con la sua retorica suadente, sia l' unico a poter mettere al suo posto l' astro rinascente di Nigel Farage. Ieri dalla Svizzera ha fatto prontamente sapere di essere pronto a combattere, visto che «un nuovo leader avrà modo di fare le cose in modo diverso grazie allo slancio di una nuova squadra».
BORIS JOHNSON COME MILEY CYRUS
PATTI CHIARI Con lui però i patti sono chiari: si esce entro il 31 ottobre, con o senza accordo, perché «per ottenere qualcosa devi essere pronto a girare i tacchi». Una posizione dura, quella dell' uomo che rischia di entrare papa e uscire cardinale, ma mai quanto quella del suo principale rivale, Dominic Raab, avvocato quarantacinquenne la cui tetragona fede euroscettica ha vacillato solo quando ha scoperto che il Regno Unito, essendo una entità geografica particolare, ossia un' isola, dipende effettivamente molto dalla rotta Dover-Calais per gli scambi commerciali.
BORIS JOHNSON
Col risultato che il cinquantaquattrenne Boris, rispetto a Raab, è il moderato di turno, anche se i suoi precedenti assai deludenti al Foreign Office fanno tremare le vene ai polsi a molti esponenti del partito, che chiedono di non puntare sul più Farage di Farage ma di cercare altrove il nuovo leader. L' altro esponente carismatico dell' anti-mayismo militante di questi anni, Jacob Rees-Mogg, non si è fatto avanti, ma ha salutato la premier con un tweet velenoso: «Nulla del suo mandato le si addice quanto l' averlo lasciato». Restano quindi gli altri quindici circa che si sarebbero fatti più o meno ufficialmente avanti. Una scelta solida potrebbe ricadere su Michael Gove, la mente del partito, l' accoltellatore per eccellenza che in questi anni ha sostenuto la May nella speranza che risolvesse il problema della Brexit per lasciare campo libero a lui e alla sua visione di paese: è un leaver' moderato, percepito come responsabile, sicuramente ha ambizioni.
boris johnson Marina Wheeler
Come Jeremy Hunt, ex ministro della Sanità ora agli Esteri, il primo a farsi avanti. O Graham Brady, guida di quel comitato 1922 che rappresenta i deputati conservatori che negli ultimi tempi si sono dati molto da fare per mandare a casa Theresa: si è dimesso, vuole provarci.
Poi c' è Sajid Javid, il ministro per le imprese, origini pakistane e credenziali di ferro, ma remainer, quindi destinato alla stessa diffidenza dell' attuale inquilina uscente. Che tra le inevitabili lacrime di stanchezza ieri ha detto che non sarà l' ultima donna a Downing Street.
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