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Giulia D'Agnolo Vallan per Dagospia
"Volevo essere onesto nel mostrare quello che era realmente la schiavitù, i suoi intollerabili abusi - non la versione romantica, idealizzata e asettica di film hollywoodiani come â'Via col vento''. La mia è una rappresentazione esatta di quell'epoca: il film puo' sembrare melodrammatico, ma è un ritratto rigoroso degli orrori dello schiavismo".
No, non si tratta di una citazione del regista Steve McQueen su â'12 Years a Slave'', uno dei titoli favoriti all'Oscar 2013. A parlare e' Richard Fleischer, autore di amatissime fantasie hollywodiane come â'I Vichinghi'' e â'Ventimila leghe sotto i mari'', di melodrammi infuocati come â'L'altalena di velluto rosso'' e di noir asciutti come â'Sabato tragico''.
L'anno è il 1975, e il film a cui Fleischer si riferisce è â'Mandingo'', tratto dal romanzo di Kyle Onstott (il primo del ciclo dedicato a Falconhurst la piantagione della micidiale famiglia Maxwell, nell'Alabama tra il 1879 e il 1887), con James Mason nella parte dell'orrido patriarca, Perry King in quella di suo figlio che sembra meglio ma non lo è, e il campione dei massimi Ken Norton (spacco' la mascella ad Alì) in quelli di Mede, il gigantesco, docile, schiavo/stallone che viene bollito in pentola dopo aver messo incinta la moglie del padrone.
Devastante quadro di ingiustizia sociale, violenza, abuso, misoginia e psicopatologie sessuali varie, â'Mandingo'' e' stata una delle ispirazioni di â'Django Unchained'' e, tutt'oggi, da' punti su tutta la linea al glaciale sadismo "arty" di McQueen.
Ai tempi dell'uscita in sala fu attaccato selvaggiamente (Roger Ebert, il portavoce del mainstream critico, lo definì: "spazzatura razzista, osceno nella sua manipolazione dei sentimenti e degli essere umani e insostenibile alla vista"), cosa che addoloro' moltisimo Fleischer, che lo considerava un suo film molto personale, di denuncia politica, e che in postproduzione si scontro' con Dino De Laurentiis e fu costretto a ridurre a poco piu' di due ore, la versione di tre ore e quarantacinque minuti che avrebbe voluto portare al pubblico.
Arrivato pochi anni dopo che film come â'Sweet Sweetback's Baaddasssss Song'', Shaft e Superfly, e il successo di autori afroemaricani come Melvin Van Peebles e Gordon Parks, avevano illuminato l'esistenza di un vasto mercato per il cinema poplare, di genere, a sfondo black, â'Mandingo'' fu completamente frainteso.
Ascritto a quella stessa onda di blaxploitation (disprezzata dagli intellettuali bianchi e vissuta con imbarazzo da quelli neri) venne letteralmente sommerso da una montagna di indignazione perbenista, di politically correct ante litteram.
Nonostante, con il tempo, sia stato un po' rivalutato (per esempio da critici come Dave Kehr e Jonathan Rosenbaum), e' tutt'oggi considerato un film maledetto.
Quarant'anni dopo, paradossalmente, quello stesso politically correct fa di â'12 Years a Slave'' il film di cui NON si puo' parlare male.
"Importante" e' la parola un po' nebulosa che ricorre piu' frequentemente per descriverlo - forse perche' non sembra di buon gusto dire "bello" di fronte alle immagini di una schiava stuprata ripetutamente e frustata a sangue, o di uno uomo appeso per i piedi, al sole, per un intero giorno.
C'e' anche il dubbio che - dietro alle recensioni ossequiose, il film non piaccia poi così tanto, ma che nessuno osi dirlo perchè poi - specialmente nell'era Obama- magari uno pensa che sia razzista. A New York, per esempio, solo un critico ha osato manifestare pubblicamene delle riserve - ma poi il premio di miglior film dell'anno lo hanno dato al molto piu' simpatico e meno pretenzioso â'American Hustle''.
â'12 Years'' non arriva, come Mandingo, da un'opera di fiction letteraria ma dal memoriale di un uomo realmente esistito, Solomon Northup, pubblicato per la prima volta nel 1853, pochi mesi dopo l'uscita di âLa capanna dello zio Tom', della scrittrice abolizionista Harriet Beecher Stowe.
Scomparso dalla circolazione fino agli anni sessanta, quando e' stato resuscitato dalla studiosa Sue Eakin, il memoriale ripercorre la vicenda di Northup, un uomo libero (musicista, con moglie e due figli) di Minerva, nello stato di New York, attirato a Washington con la promessa di un lavoro, drogato, rapito e caricato a bordo di una nave diretta in Louisiana dove verra' venduto come schiavo a proprietari di piantagione, in gradi crescenti di aguzzinita'.
McQueen l'ha paragonato piu' volte il libro a âIl diario di Anna Frank', "solo cent'anni prima". Chiwetel Ejofor e' Northup, Michael Fassbender il suo padrone piu' sadico, Brad Pitt (anche produttore) il falegname canadese che lo salva.
Come gia' con âHunger' e âShame', McQueen fa cadere anche questo terzo film (il suo piu' didascalico e divulgativo) dall'alto della sua esperienza nelle arti visive - la sua e' un'opera di immagini studiatissime, e altrettanto fredde. "12 Years a Slave" e' una successione di tableaux vivents della crudelta', con riprese lunghe, in campo totale, composte con eleganza, in cui la bellezza degli sfondi si scontra contro l'orrore di quello che ti scorre daventi agli occhi. L'inguardabilita' e' la sua scommessa.
Ironicamente, pero', a confronto con un film come â'Mandingo'' (e anche allo splatterissimo â'Django Unchained''), l'algida, artisticamente corretta, inguardabilità di McQueen è rassicurante - a meno che nel 2013, tra le file del pubblico "educato" a cui è destinato il suo film, ci sia ancora qualcuno che ha dei dubbi sul fatto che la schiavitu' sia (stata) una cosa orribile e profondamente disumana.
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