DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Dal profilo Facebook di Alessandro Gilioli
Nell'apocalisse delle immagini di guerra, nell'uragano di dolori e torti che ci massacrano l'anima già devastata da due anni di epidemia, questa di cui parlo qui è cosa talmente piccola che quasi mi vergogno a scriverne.
Lo faccio quindi con gli occhi del miope, dell'autocentrato: insomma, perché è stato un pezzo importante della mia vita. E, professionalmente parlando, il più importante, fino a meno di due anni fa.
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Nel cortile di via Colombo, sede della Repubblica e dell'Espresso, ci sono delle macchinette del caffè. È lì che ci si incontrava tra colleghi e si chiacchierava delle cose ufficiose, quelle che poi - quasi sempre - diventavano vere. Ed è lì che un giorno ho saputo che la Fiat ci voleva comprare.
eugenio scalfari carlo caracciolo
È un esperienza strana, «essere comprati», chi l'ha provata lo sa. Ti senti un po' una pecora in un gregge che viene pesata e poi passa da un padrone all'altro. Capisci che succedono cose molto più in alto di te, tra miliardari felpati, che impatteranno sulla tua vita senza che tu possa fare assolutamente niente.
In un giornale però c'è qualcosa di più, visto che produce informazione, inchieste, opinioni. Non ti chiedi solo quale sarà il tuo destino personale. Ti chiedi anche quanto sarà più larga o più stretta la mordacchia. Perché, come ovvio, nessun giornale che abbia un padrone è privo di mordacchia; la questione è solo quanto è stretta o larga, insomma qual è il margine di indipendenza e di libertà.
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Diciamo la verità: era assai lasca e di fatto impercettibile quella mordacchia quando a capo della baracca c'era il Principe, come veniva chiamato Carlo Caracciolo. Insomma, si era sostanzialmente liberi.
Uomo di mondo, gran viveur, sempre divertente e divertito dalla vita. Il giorno in cui fui assunto all'Espresso – era la fine del 2002 – passai per il vaglio di prammatica del colloquio nel suo ufficio, anche se ormai era cosa fatta, grazie a Daniela Hamaui. C'erano dei quadri alle pareti con cui avrei sistemato un paio di generazioni di Gilioli e questa fu la prima, stolta, cosa che pensai.
Lui guardò distrattamente il mio curriculum e fu incuriosito dai quattro anni alla direzione di un mensile: «Ah lei ha fatto Gulliver. E cosa ne pensa del nostro Viaggi, l'allegato a Repubblica?», mi chiese. Ora, l'allegato in questione era abbastanza pessimo. Con le foto degli uffici stampa, nessun inviato, pezzi scopiazzati dalle guide turistiche, per non dire delle marchette. Ero imbarazzatissimo. Me la cavai con un codardo «Beh, secondo me ci sono margini di miglioramento». E lui: «Ma no! Dica pure che l'abbiamo fatto alla cazzo di cane!». E giù a sghignazzare.
Insomma, decisamente non era il tipo che intimidiva. Il resto del colloquio fu un cazzeggio a ruota libera, con qualche bel ricordo suo di quando era stato partigiano. O di quando un'estate su un taxi accaldato passò per caso da Melito, e lui mezzo addormentato vide il cartello e sobbalzò, «ma io sono il principe di Melito!», e il taxista preoccupato: «Dottò, le accendo l'aria condizionata eh?». Comunque, mi sono sentito accolto. E in una bella squadra.
E sempre più in una bella squadra mi sono sentito pochi giorni dopo, alla festa di Natale in via Po. Che lo stesso Caracciolo faceva ogni anno, ma per me era la prima volta. Nel conoscere i colleghi, avevo la percezione di essere a bordo di quella che Scalfari chiamava “vascello pirata”. Dove noi marinai di vario grado venivamo da tutte le sinistre possibili - liberali o comuniste, moderate o extraparlamentari, laiche o cattoliche e così via - ma eravamo tutti parte di uno stesso progetto, libero e non impaurito da nessun potere politico o economico.
Non voglio raccontare un quadro idilliaco. I cazzi amari poi c'erano, come dappertutto. Così come i brutti ceffi, le guerre di scrivania, le ambizioni personali, le vanità (quelle non mancano mai, nel nostro mestiere di narcisi frustrati, almeno fino a una certa età). Eppure idilliaco sembra, al confronto con quello che è successo poi, senza che questo sia uno scherzo della memoria.
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RODOLFO, CARLO, EDOARDO E MARCO DE BENEDETTI
La deriva non è avvenuta in un giorno. Come tutte le derive, in effetti. Il Principe morì nel 2008. L'Ingegnere - cioè Carlo De Benedetti - divenne direttamente presidente, da cauto azionista che era. Le feste di Natale finirono subito e come amministratore delegato arrivò una signora gentile che però sedeva già in tre o quattro importanti consigli di amministrazione. Iniziò insomma l'aziendalizzazione, l'intreccio con i poteri di fuori.
Nel quotidiano, il pass magnetico per entrare e uscire, la polizia privata che in via Po non si era mai vista e che nel palazzo di via Colombo invece è la prima cosa che vedi.
Attorno a noi, intanto, si cominciava a vedere anche un'altra cosa, assai peggiore, cioè il piano inclinato della carta stampata, che iniziava a essere divorata dalla crisi strutturale che ben conoscete - allora non era così chiara a tutti, in verità, specie nella sua velocità. Comunque, servivano nuove strategie - questo era evidente - ma nessuno sapeva dove andarle a pescare.
Non so se è anche per questo che nel 2012 l'Ingegnere regalò il gruppo ai tre figli, tutto passava sempre sulle nostre teste. Ad ogni modo rimase alla presidenza, per un po', anche se noi non se ne aveva più notizia. Poi a un certo punto tutto andò in modo abbastanza rapido, tra ondate di prepensionamenti, voci di cassintegrazione, tagli di borderò ai collaboratori, insomma il senso di paura.
carlo de benedetti marco damilano
Uscito dal Corriere, il gruppo Fiat entrò con una quota di minoranza, portando in dote La Stampa. Era il 2016. L'anno dopo uno dei figli dell'Ingegnere, Marco, divenne presidente al posto del padre. Un giorno venne a trovarci in redazione, fu cortese nell'ascoltare il lavoro che facevamo, ma era palesemente disinteressato. Alle redazioni, ai giornali, all'editoria.
Nessuno conosceva le sue opinioni politiche, anche se tra noi si scherzava su quelle della moglie, del giro Santanché. Comunque, mai più visto né sentito. Si era in un limbo. Ma la direzione era abbastanza chiara e portava dritti a Torino, al gruppo privato più grosso d'Italia, insomma al cuore dell'establishment economico italiano, all'azienda che da sempre privatizzava i profitti e statalizzava le perdite, che quindi ci avrebbe comprato come merce di scambio con la politica e con il capitalismo di relazione italiano.
E così nel 2019 il “vascello pirata” era già diventato il tender di casa Agnelli.
Torino ho scritto, ma il nostro nuovo padrone tecnicamente era una finanziaria olandese, insomma la cassaforte all'estero per non pagare le tasse. Mica male per noi dell'Espresso, quelli delle battaglie civili.
EUGENIO SCALFARI - CARLO CARACCIOLO - MARIO FORMENTON
Scalfari scrisse un editoriale in cui disse che andava tutto bene. Il “Fundador” è sempre stato molto bravo nel convincersi che è giusto ciò che gli conviene - e non gli conveniva far casino, a 95 anni poi. E comunque non poteva disconoscere il figlio anche se questo era diventato il contrario di quello che lui in età meno senile aveva voluto. Ma noi gli si voleva bene lo stesso, in fondo senza di lui non ci sarebbe stato niente di tutto quello di cui sto parlando.
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I Fiat boys atterrarono da Torino alla Garbatella con le loro cravatte blu, il profumo di Penhalingon's e l'aria di quelli che “qui non capite un cazzo, ma adesso ci pensiamo noi”.
Come amministratore delegato Elkann mise uno dei suoi yesman, un Carneade dell'editoria ma fedelissimo al sistema di potere Exor.
Poco dopo la nomina, questo tizio convocò le direzioni dei giornali del gruppo nella sala riunioni all'ultimo piano, Elkann non c'era ma intervenne in audio. Non ricordo nemmeno che cazzate disse, ma era il solito aziendalese di maniera, le sfide del futuro, lo sbarco nel digitale e bla bla bla. Ricordo solo tutti questi direttori e vicedirettori - quorum ego, sì - in piedi ad ascoltare il padrone in religioso silenzio. Fantozzi non è stata un'invenzione, diciamolo.
Ah, a quell'imbarazzante cerimonia, a quel bacio della pantofola, non era presente Carlo Verdelli, il direttore di Repubblica, che pure era il più importante tra noi, per ruolo.
Eccellente giornalista e uomo di sinistra, Verdelli era stato chiamato un anno prima dai De Benedetti che sulla direzione di Repubblica avevano già fatto un bel po' di pasticci. Esonerato Ezio Mauro poco prima che superasse Scalfari per anni di direzione - cosa che gli diede un bel po' di fastidio - gli azionisti avevano chiamato in via Colombo Mario Calabresi, proprio dalla Stampa.
VINCENZO BOCCIA MAURIZIO MOLINARI JOHN ELKANN
Pieno di idee innovative e digitali sul futuro ma assai poco presente in redazione e sull'oggi, Calabresi aveva quindi peggiorato l'emorragia di copie già rotolante per conto proprio. Sicché i De Benedetti a un certo punto pensarono di affiancargli un pazzo creativo che poi era il mio direttore all'Espresso, Tommaso Cerno, a cui non difettavano né le ambizioni né l'intelligenza.
Ma Cerno era convinto di andare lì a comandare, insomma a fare le scarpe a Calabresi, il quale evidentemente non era d'accordo, quindi venne fuori un casino al termine del quale, tre mesi dopo, un bel mattino Cerno lasciò il suo cappotto firmato sulla poltrona di condirettore per scappare in garage da un ascensore laterale e diventare senatore renziano. Oh: non è un'iperbole, il dettaglio sul cappotto abbandonato dalla fretta di andarsene, qualche collega lo fotografò e fece girare l'immagine, tra le nostre risate alla solita macchinetta del caffè.
Comunque, dicevo, fatto il pasticcio Calabresi e poi quello Cerno, a un certo punto i De Benedetti decisero di tagliare la testa al toro chiamando Carlo Verdelli, curriculum straordinario e grande artigiano dei giornali. Però, appunto, era anche uomo di sinistra, e quindi la prima cosa che fecero gli Agnelli appena arrivati fu cacciarlo. Lo fecero nel giorno in cui doveva morire, secondo le minacce che aveva ricevuto dall'estrema destra. Con l'eleganza del padrone senza peli sullo stomaco, lo stile Fiat.
A Repubblica arrivò Maurizio Molinari. Non devo dirlo io, chi sia: lo vedete da soli, se ancora comprate Repubblica. Non mi va nemmeno di raccontare troppo nel dettaglio l'imbarazzo - la vergogna - che provavo nel vedere come stava trasformando un giornale che un tempo era stato aperto a una sinistra plurale e libertina: ogni giorno di più ridotto a megafono del potere economico, con sbandate continue verso le peggiori destre americane e israeliane. E poi: le censure a Bernardo Valli (a Bernardo Valli!), le firme dei neocon e degli ex ministri di Berlusconi, il misto continuo tra cialtroneria e fake news, giù giù fino alle liste di proscrizione di Riotta.
Il tutto nel perdonabile silenzio della redazione, perché quando uno tsunami devasta il tuo settore di mercato i rapporti di forza sono tutti sbilanciati dalla parte del padrone, ognuno è terrorizzato dai suoi destini personali, non è il momento delle battaglie collettive, se siamo in troppi per favore licenziate il mio vicino di scrivania e non me.
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Ma a quel punto, per fortuna, me ne stavo già andando. Solo fortuna, nessuno è eroe e abbiamo tutti bisogno di uno stipendio per i figli.
Ogni tanto l'ho sentito, il mio ex direttore all'Espresso, Marco Damilano, in questi mesi. Poche cose e nulla che meriti di essere reso pubblico. È un uomo con la schiena diritta, il suo editoriale di saluto - straordinario - è sul sito dell'Espresso. Cita Aldo Moro, a un certo punto: «Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie».
marco damilano presenta la nuova grafica de l espresso (2)
Questo è il motivo per cui me ne sono andato, in effetti. Lui invece, quando ero ancora lì, mi diceva che dovevamo provarci: «Perfino Berlusconi, nel mangiarsi la Rai, lasciò il Tg3 alla sinistra», mi diceva. E voleva spiegare ai nuovi padroni che anche a loro conveniva avere una voce dissenziente, anche a loro conveniva coprire un'area di mercato diversa da quella dell'ammiraglia.
“Resistiamo”, mi rispondeva su WhatsApp quando, ormai lontano da Roma, gli chiedevo come andassero le cose. E finché ha potuto lo ha fatto. Ma gli Agnelli si sono dimostrati meno tolleranti o meno furbi di Berlusconi. Oggi anche lui ha smesso di resistere.
Dell'Espresso ora vorrei che restasse almeno il ricordo di un giornale che ha aiutato a emancipare l'Italia. Di un giornale che ha combattuto grandi battaglie civili e sociali per spingere il Paese un po' più in là - e che lo ha fatto finché gli hanno permesso di farlo.
ALESSANDRO GILIOLIraggi l'espressoCaracciolo Scalfari De Benedetticarlo verdelliSERGIO MATTARELLA CARLO VERDELLICaracciolo Scalfari De Benedetti
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