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PIPERNO, DI BELEN IN MEGLIO: "SONO UN VOYEUR, SEGUO LA VITA DI BELEN RODRIGUEZ SU INSTAGRAM E I PROGRAMMI DEMENZIALI SU REAL TIME - NON SONO UN NOSTALGICO. FORSE SONO INCLINE AL RISENTIMENTO MA LAVORO COME UN MONACO TIBETANO PER LIBERARMENE''

PIPERNO DOVE LA STORIA FINISCEPIPERNO DOVE LA STORIA FINISCE

Raffaella De Santis per “la Repubblica”

 

La versione matura di Alessandro Piperno è quella dello scrittore che sfida se stesso. Per l’intervista ha scelto le atmosfere novecentesche dell’Hotel Locarno al centro di Roma. Demodé, raffinato, déco, l’albergo sembra fatto apposta per la sua giacca di taglio inglese, gli occhialini dorati, la pipa.

 

Piperno ha scritto un libro diverso, spiazzante. “Dove la storia finisce” (Mondadori) è un romanzo d’amore dall’andamento lento, senza livore, senza iperboli, dove una moglie aspetta 16 anni il ritorno dell’uomo che ama, mentre vanno in scena dissidi e riappacificazioni come in una commedia degli equivoci, in cui tutti fingono di desiderare ciò che non possono avere.

 

 

Intorno si muove Roma e il demi- monde slabbrato della borghesia capitolina, ebrei, cattolici, comunisti. Piperno è seduto a un tavolo intento a studiare Stendhal per le sue lezioni all’università. Veste come 11 anni fa, quando il suo romanzo d’esordio

 

 

Con le peggiori intenzioni lo catapultò con clamore dentro la scena letteraria. Ci vuole coraggio per non replicare schemi vincenti: «Mi ero annoiato di me stesso, avevo bisogno di più tenerezza. Fuori si respira troppo rancore».

BELEN BELEN

È da qui che nasce questo romanzo, da una voglia di cambiamento?

«Dalla noia. Sentivo il rischio di trasformarmi in una parodia di me stesso. So quello che so fare. So descrivere un uomo di mezza età sarcastico e incazzato. So descrivere conflitti familiari molto parossistici. Con Matteo Zevi, uno dei protagonisti, avrei potuto divertirmi molto di più. Forse in altri tempi lo avrei messo di fronte a scene più sensazionali, ma stavolta volevo mettere la sordina».

Sembra un passaggio all’età adulta.

«Ho capito di amare nei libri la tenerezza. Mi conquista l’indulgenza. Un personaggio negativo come Dolochov in Guerra e pace diventa umano quando, ferito in duello, improvvisamente scoppia a piangere e chiede di essere portato dalla madre, preoccupandosi che non le dicano che sta morendo».

 

 

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Era alla ricerca di una voce meno livorosa?

«Col passare degli anni la voce si fa più rauca, più dolce, più autentica. Non c’è più narcisismo, né ricerca dell’effetto. Oggi sono meno severo. Ho scritto senza sparare subito le cartucce. Ero stanco anche delle mie solite ipotassi, dei miei aggettivi».

Ne ha tagliati molti.

«Togliere dà un senso di euforia iconoclasta. Volevo scrivere un libro onesto, più tenero. Tanto più che c’è in giro un’atmosfera di incanaglimento».

 

 

Da che dipende?

«Non c’è niente che renda più spregevoli gli uomini delle crisi economiche. Sono tornate in scena cose di cui credevamo di esserci liberati: odio, povertà, guerre, razzismo, antisemitismo. Ho iniziato a lavorare al libro quattro anni fa, dopo la vittoria allo Strega con Inseparabili. L’idea iniziale è nelle pagine finali, quando la Storia irrompe nella trama...» 

Non lo riveliamo, ma diciamo che il finale ribalta tutto.

«Il titolo richiama l’idea di fine della storia di Fukuyama. La storia in realtà non finisce mai, riprende a camminare attraverso fatti di estrema violenza».

Parliamo dei personaggi femminili, sono una grande sfida. C’è una donna, Federica, che aspetta il suo uomo con incredibile pazienza.

«Federica è indulgente, fugge ad ogni forma di conflitto e rispecchia bene la mia idea temperante dell’esistenza».

Ma lei non passava per essere misogino?

«Erano accuse grottesche, ma è possibile che abbiano lavorato in me in modo subliminale».

 

Colpisce che abbia rinunciato alle scene di sesso.

«Trovo che oggi l’inibizione sia più interessante dell’esibizione. Il sesso in narrativa è noioso. In genere ci sono due modi per trattarlo. Un modo è quello della pruderieottocentesca, per ellissi, come Flaubert. L’altro è quello diretto di Henry Miller o Philip Roth. Tutto quello che c’è in mezzo mi fa un po’ ribrezzo e un po’ ridere».

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Lei ha avuto successi alterni, teme la reazione dei lettori?

«Credo nei libri, ma non nel marketing letterario. Non penso che calcare i palcoscenici alla lunga paghi. E poi mi sento inadeguato, sul palco soffro. È anche una forma di autoironia, di orrore per me stesso. In realtà sono timido, soffro della sindrome dell’impostore. Vivo nell’idea di essere smascherato. Mi comporto come l’Avversario di Carrère, pur non avendo menzogne da nascondere».

 

 

Ha mai pensato di usare uno pseudonimo come Elena Ferrante?

«No mai, e quello che si è scatenato intorno a lei mi pare abbastanza bieco».

Anche nel rapporto con l’ebraismo si ha l’impressione che lo viva un po’ come impostura.

«Ho una famiglia ebraica da parte di padre, ma mia madre è cattolica. Sono un bastardo, non mi sono mai sentito assimilato».

 

 

E rispetto alla nostra epoca, si sente a casa?

«Mi piace la velocità e guardo con simpatia i social network, pur non usandoli. Sono un voyeur, seguo la vita di Belen Rodriguez su Istagram e i programmi demenziali su Real Time. Non sono né nostalgico, né tradizionalista, né anacronista. Forse sono incline al risentimento ma lavoro come un monaco tibetano per liberarmene“

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