DAGOREPORT – DANIELA SANTANCHÈ NON È GENNARO SANGIULIANO, UN GIORNALISTA PRESTATO ALLA POLITICA…
Da Vanity Fair
«Vengo da una famiglia a cui il cibo non è mai mancato, ma che durante la mia infanzia ha avuto importanti difficoltà economiche. In un certo periodo abbiamo dovuto tirare la cinghia. Era l’epoca in cui sembrava che per decreto divino ogni ragazzo dovesse indossare una maglietta Calvin Klein e a me, quella maglietta, i miei non potevano proprio comprarla.
Alla fine agguantai un’imitazione che misi con la vergogna di chi può essere scoperto da un momento all’altro. Pensavo in continuazione che qualcuno mi avrebbe smascherato. Sembra stupido, ma si trattava di angosce terribili, angosce da insicurezza, angosce da batticuore».
A Vanity Fair, che le dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 31 luglio, Miriam Leone confida un episodio inedito della sua adolescenza, quando era divisa tra la pressione a conformarsi e la sua congenita tendenza a distinguersi. Vinse la seconda: «Alla fine la maglietta l’ho buttata e ho continuato a vestire con gli abiti su misura che le mie zie, tutte sarte e ricamatrici, mi confezionavano.
Fino a quel momento avevo avuto vestiti bellissimi, per i quali sceglievo anche l’ultimo bottone, ma con quella maglietta volevo essere semplicemente come tutti gli altri, non ci riuscivo e così ho tentato in vari modi di annullarmi. Poi, prima di perdermi, ho riabbracciato me stessa e quell’unicità non mi è sembrata più stranezza, ma forza».
La trentaquattrenne attrice siciliana, che vedremo in autunno su Sky Atlantic in 1994, e poi nel Diabolik dei Manetti Bros, racconta a Vanity Fair che la sua idiosincrasia alle regole ha radici lontane: «All’asilo non volevo portare il grembiule e così architettai un piano. Andai in bagno, lo nascosi e tornai in classe come se niente fosse. Lo ritrovarono, mi rimproverarono e mi spiegarono seri seri l’importanza di indossarlo. Tornai a casa e capii subito che avrei dovuto fare di più: il giorno dopo lo ridussi in piccole strisce, lo buttai direttamente nel cesso e tirai lo sciacquone.
Combinai un gran casino: si intasò tutto e l’acqua cominciò ad allagare pavimento e corridoi. Presa dal panico fuggii in strada. Avevo 4 anni. Anche lì, lezioni e mòniti: “Miriam, il grembiule serve a riconoscerci, a essere ordinati, puliti e tutti uguali”. Io uguale agli altri non volevo essere e grazie agli scarti delle mie zie avevo già un guardaroba pazzesco che ai miei occhi valeva più di tutte le divise che mi obbligavano a indossare, e delle quali già allora faticavo a capire il senso».
La volta in cui non se la cavò con un rimprovero, spiega nell’intervista, fu il giorno in cui rischiò di morire: «Amo immergermi quando piove, ma una volta mi spinsi troppo al largo e non riuscendo ad andare controcorrente temetti davvero di non riuscire a tornare. Durante una mareggiata fortissima mi aggrappai a uno scoglio affiorante, ferendomi dalla testa ai piedi, tornando a riva esausta e senza fiato, prima di essere cazziata dai miei e prenderle al piano di sopra perché al tempo si usava così».
La crisi, racconta a Vanity Fair, arrivò durante l’adolescenza. «Quando sei adolescente sei implicitamente invitato a uniformarti. Sai che non puoi permetterti stravaganze. Ne basta una e diventi quello strano. Essere considerati strani può essere duro, può farti sentire escluso. E io ero quella strana. Quella che a 14 anni leggeva Mallarmé e Baudelaire, si incupiva con Montale e con il male di vivere e nello scontro con la realtà soffriva. Stare da sola non mi dispiaceva, ma non riuscire a condividere il mio mondo con nessuno al tempo stesso mi pesava. Mi vergognavo. I miei interessi erano lontani da quelli del branco, quindi fingevo di essere chi non ero».
Nell’intervista con il vicedirettore Malcom Pagani, Miriam Leone parla anche d’amore: «Ho sofferto per amore prima di capire cosa fosse l’amore. Le donne dei romanzi che leggevo, ovviamente, erano tutte sventurate. Sventurate loro e disgraziatissime le eroine dei cartoni animati della mia generazione, la generazione Bim Bum Bam. Pollyanna, Lady Oscar, Georgie. Tutte più o meno abbandonate o orfane, così abbandonate da farti sentire in colpa per essere stata felice, o addirittura di essere viva».
Delle prime cotte platoniche: «Più mancava un contatto fisico, più mi struggevo. L’amore a una certa età era così: patimento e dolore. “Non sarò mai all’altezza”, mi dicevo mentre il bello di turno, ignaro, mi passava davanti in motorino». Delle poche storie importanti che ha avuto: «L’amore romantico, magari corrisposto, è una fortuna che capita poche volte. Quello fugace è tutta un’altra storia che non sempre vale la pena vivere».
Del matrimonio: «Nel mio frigo non manca mai un limone da buttare. Nasce giallo, diventa verde, poi fa la muffa. La vita da single, signori, è così. Le zie però, il corredo di nozze tutto ricamato a mano, stupendo, lo hanno messo coscienziosamente da parte. Un giorno, dicono, me lo daranno: ma solo se mi sposo. Non demordono, loro».
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