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FLASH! - SIAMO UOMINI O GENERALI? PER L'OTTUAGENARIO CALTAGIRONE LA CATTURA DEL LEONE DI TRIESTE E'…
Marco Giusti per Dagospia
Prima di vedere "Django Unchained" meglio ristudiarsi i classici, come il vecchio "Django", capolavoro del 1966 di Sergio Corbucci, da cui tutto nasce.
da "Dizionario del Western Italiano" di Marco Giusti, Mondadori, 2008.
"Django". Supercult western in tutto il mondo. Lancio di Corbucci come regista di western di successo, di Franco Nero come star internazionale, di Manolo Bolognini, fratello di Mauro, e di Franco Rossellini come produttori e del nostro western come trionfo di violenza.
"Mi ero messo a farlo alla mia maniera," ricordava il regista, "con crudeltà , esagerazione, fango, schifezze, morti a raffica... per contrappormi a Leone che propendeva per una linea solare, fatta di sabbia e di sole. Mi ero ispirato un po' alla linea giapponese, ai film di Akira Kurosawa...".
Django è un reduce della Guerra Civile e arriva trascinandosi una misteriosa bara ("La bara porta bene, mi diceva Totò", diceva Corbucci) in una città divisa tra due bande rivali lungo il confine tra Messico e Stati Uniti. Una fatta di messicani è comandata dal sadico generale Hugo Rodriguez. I loro nemici sono uomini incappucciati sudisti del Ku Klux Klan, capitanati dal maggiore Jackson, un pazzo razzista che odia i messicani...
Django fa il doppio gioco, ma deve vendicarsi del maggiore, che gli ha ucciso la moglie. I messicani hanno bisogno di soldi per tornare in Messico e Django ha una storia con la prostituta della città , Maria. Django dapprima sta con i messicani, poi li tradisce e loro gli spezzano le mani. Gran finale nel cimitero di Tombstone. Con le mani spappolate, Django si ritrova ad affrontare il maggiore Jackson davanti alla tomba di una donna, Mercedes Zaro. Ma Django vincerà .
Grande la scena trucidissima del taglio dell'orecchio del prete del clan, Gino Pernice, spione. Poi glielo fanno mangiare. "Quando fecero il film al cinema Cola di Rienzo," ricordava Corbucci, "per quella scena ci furono addirittura delle urla in sala e poi, uscendo, parlavano solo di quella scena. Era un film, in quel senso, veramente truculento. C'era uno che trascinava una bara nel fango, nella bara c'era una mitragliatrice, c'erano delle mani che venivano spappolate dagli zoccoli dei cavalli... eravamo nel 1966 e per quei tempi era molto forte...".
Visto che è un film di grandissimo successo è ovvio che il film abbia molti padri e ognuno racconti la sua storia. Intanto il film nasce dopo il disastro di un film ambizioso prodotto da Bolognini, La donna del lago, diretto da Luigi Bazzoni. "Per recuperare i soldi mi dissero di fare un western. Così chiamai Sergio Corbucci che stava terminando Johnny Oro". Il nome Django, che per Corbucci è un omaggio a Django Reinhardt, per Manolo Bolognini è "nome di un chitarrista greco che ascoltai in viaggio con la mia prima moglie". Mah...
Anche Vivarelli, esperto di musica, ricorda che viene da Django Reinhardt. "Io avevo dato a Corbucci dei dischi di Django Reinhardt e quando non sapevamo che titolo trovare venne fuori appunto Django, che non c'entra nulla con il western, visto che è gitano." Vivarelli, che già faceva il regista, venne chiamato da Corbucci per la revisione della sceneggiatura. "Mi chiamò e mi chiese: Pierino, lo faresti ancora lo sceneggiatore? Allora, passa domani da Bolognini in ufficio e firma il contratto per la revisione. Dopo andai a casa di Sergio e gli chiesi, allora, cosa avete? Sergio mi disse: C'è questo pistolero che cammina da solo trascinandosi dietro una bara nella fanga. E poi? Poi non lo so. Allora inventammo il film partendo dal finale. Sergio aveva già fatto un finale col pistolero sordo, poi con quello cieco. Gli dissi facciamolo senza mani. Cioè senza mani perché gliele hanno calpestate i messicani. E così venne la storia. All'incontrario."
Secondo Bolognini il copione è tutta farina del suo sceneggiatore Franco Rossetti, marito della costumista Gaia Romanini, storia e copione. Ma la revisione venne fatta da Corbucci con Piero Vivarelli, che infatti firma il copione. Più o meno è la stessa cosa che dice anche Franco Rossetti, che comunque si ritiene soddisfatto di quello che dicono i titoli di testa e dei diritti che gli arrivano regolarmente dai passaggi televisivi del film in tutto il mondo.
"La storia della sceneggiatura di Django è questa", ricorda. "C'era Corbucci che voleva fare questo western, ma non aveva le idee chiare. A un certo punto lui ebbe l'idea di questo pistolero che si porta appresso la bara. Mi pare una bella idea, gli dissi, ci si può lavorare sopra. Il film doveva essere fatto subito, non ricordo perchè, così la sceneggiatura doveva essere scritta il giorno dopo. Io gli dissi che non me la sentivo di far tutto da solo. Vogliamo provare Vivarelli?, gli chiedo, e chiamammo lui che era un amico.
La sceneggiatura così l'abbiamo scritta io e Vivarelli." Rossetti ricorda anche che Corbucci non credeva troppo al film. Gli preferiva quello che aveva fatto poco prima, "Johnny Oro", che gli sembrava più rifinita e con un buon protagonista, Mark Damon. Dobbiamo ricordare che anche Fernando Di Leo ha detto più volte di avere riscritto una ultima revisione la notte prima che Corbucci partisse per la Spagna. "Sono stato tutta la notte a casa di Corbucci, che aveva l'aereo alle otto di mattina. Il povero Sergio a un certo punto mi disse: "Fernà , scusa, ma io vado a dormire, tanto quello che fai va bene..."
("Nocturno"). E Bruno Corbucci raccontava di averlo riscritto sul set. Mentre lui stava dirigendo uno dei suoi primi film da regista in Spagna, e ogni sera aveva il compito di riscrivere anche i dialoghi di Django. "Può darsi che altri abbiano dato una mano", dice Rossetti, "ma il grosso della cosa la scrivemmo noi. Riguardo a Bruno Corbucci è possibile, io non andai sul set in Spagna e non ci voleva andare nemmeno Sergio. La cosa buffa era che, anche se l'idea era sua, questo film non gli piaceva e non lo voleva girare. Lo spinsero nell'automobile a forza a andare in Spagna".
Anche per Nori Corbucci, il marito non credeva al film. "Si svegliava di notte e diceva: Sto facendo la più grande porcheria della mia vita". La riuscita del film, secondo tutti, è piuttosto casuale. Come un risultato di strane coincidenze. Secondo Deodato tra le cause maggiori il low budget, che li ha obbligati a scelte stravaganti, la scelta di Franco Nero al posto di Mark Damon, "Guarda, gli dissi, se gli metti il cappello è Clint Eastwood".
La composizione di certe scene, come quella degli incappucciati. "Non si trovavano le comparse alla Elios", dice Deodato, "feci un casting di comparse e erano tutti brutti, sdentati. Allora mi venne l'idea di mettere a tutti i cappucci rossi". Ma è notevole anche la scelta del fango, anche questa piuttosto casuale. "La Elios era abbandonata", ricorda ancora Deodato, "e c'era un gran pantano. Che facciamo?, ci domandavamo. Allora Carlo Simi, un genio della scenografia, disse: Prendiamo un bulldozer e incrementiamo il fango".
Anche Manolo Bolognini rivendica la scelta di Franco Nero, che aveva allora 23 anni e si era visto in qualche piccolo ruolo nei fantascientifici di Margheriti e come Abele ne La bibbia (1966) di John Huston. "Corbucci voleva Mark Damon, fresco di Johnny Oro", racconta Bolognini, "io avevo già pronto Franco Nero che mi sembrava perfetto. Forse passò anche Fabio Testi... Comunque alla fine Corbucci accettò Nero". Sembra che ci mise lo zampino anche Silvia Dionisio, moglie di Ruggero Deodato (assistente di Corbucci), a convincere il regista che era meglio Nero.
"Corbucci aveva già fatto il contratto a Mark Damon. Noi spingevamo per Franco Nero, che aveva fatto dei telefilm con me. Fu Nori Corbucci a convincerlo a scegliere Nero." Sarà comunque un incontro fatale. Come disse anni dopo Corbucci: "John Ford aveva John Wayne, io ho Franco Nero". I produttori gli chiedono di cambiargli il nome in Frank Black, ma Corbucci si oppone, "Dissi che Frank Black faceva schifo" (però sui primi flani si legge Frank Nero).
Tra parentesi è anche il debutto di Luciano Rossi, che farà poi Django il bastardo. L'idea della città è ripresa dal Grafton Store in Shane (1953) di George Stevens, quella del tono generale del film da Kurosawa. "Per contrappormi alla linea di Leone che era una linea solare, fatta di sabbia e di sole, mi ero ispirato un po' alla linea giapponese, ai film di Kurosawa che avevo molto amato come I sette samurai, Rashomon, Il trono di sangue con la nebbia, il fango, la pioggia" (Corbucci).
Gli esterni in Spagna vennero girati a Nord di Madrid, a Colmenar Viejo e La Pedriza a Manzanares El Real. Altre scene a Tor Caldara. Gli interni alla Elios. Ma il finale, ricorda Vivarelli, venne girato in realtà nel celebre Canalone di Tolfa.
La lavorazione fu molto faticosa, anche per i caratteri diversi messi in piedi. "Iniziammo il film il lunedì", ricorda Bolognini, "il martedì già eravamo ai primi litigi. Corbucci voleva la neve a tutti i costi. Io volevo la pozzolana. Non si girano mai i film con la neve, perché poi devi rifare tutte le scene coi cavalli e gli stuntmen perché lasciano le impronte. Ricevetti una telefonata da Nori Corbucci che mi disse che suo marito non poteva fare un film del genere. Rivedemmo la sceneggiatura e siamo stati fermi due giorni. Poi rientrò nel film".
Deodato dice di aver girato lui tutte lui le scene in Spagna "tutta la parte in Spagna l'ho girata io, mentre lui neppure c'è venuto". Nero racconta invece di un scherzo che gli fece Corbucci sul set lasciandolo da solo, lui e la sua bara, mentre tutti gli uomini della troupe se ne erano andati via (è la sequenza dei titoli di testa, lo ricorda anche Deodato).
Bolognini ricorda che per via di un ritardo di Corbucci, dovette girare lui assieme a Enzo Barboni molte scene in Spagna. Molte trovate sono proprio invenzioni di Barboni, come il segno della croce finale di Django, anche se Vivarelli pensa che l'abbia girata Corbucci. Inoltre non ricorda affatto Deodato regista sul set. E lo escluderebbe anche Rossetti, che trovò molto riuscito il film. "Il film, non solo rispettava il copione, forse era anche meglio. à venuto bene nella sua follia di western spaghetti oltranzista".
Molto si è parlato della fotografia strana e della luce del film. Enzo Barboni spiegava invece così come ottennero questo sapore particolare del film: "Django lo facemmo in venti giorni. E trovammo venti giorni di seguito un cielo di piombo, con le nuvole che si toccavano tra loro, con un grigio incredibile e il più delle volte non c'era l'esposizione: è stato un film fatto quasi tutto uno stop sotto: sottoesposto. Però il tipo di negativo era tale che si poteva lavorare anche così. Il produttore mi telefonò dicendomi: Dì un po', ma quella roba lì, come l'hai fatta?"; "Come l'ho fatta? Non c'era luce!". (da "Segno Cinema")
Tra le grandi idee del film i suoi titoli: la scritta Django in rosso, molto pop, con l'eroe che arriva trascindandosi la bara. A differenza di tutti gli eroi del western all'italiana, Django non va mai a cavallo.
Sergio Corbucci racconta che Burt Reynolds lo venne a trovare il giorno che giravano la scena di quando tagliano l'orecchio a Gino Pernice e glielo fanno mangiare e rimase di stucco. "Disse: Ma che è questa roba qua?". Gli risposi: "Questo è il western all'italiana, fatto di esagerazioni. Ma questa che hai visto è una scena che tutti ricorderanno".
Al montaggio, secondo Bolognini, il film non funzionava per niente. D'accordo col montatore, "chiamo mio fratello Mauro e in un giorno e una notte rimettemmo in sesto il film".
Il lancio del film fu una cosa molto particolare che deve molto al talento di Fulvio Frizzi della Euro, la società di distribuzione, allora molto forte. "L'amministratore della Euro era Fulvio Frizzi, una persona eccezionale", ricorda Bolognini. "Quando lo proiettammo a distributori e esercenti scapparono tutti. Solo Frizzi mi disse: Non ti preoccupare, Manolo, il minimo garantito lo recuperiamo. Siccome lui trattava grossi film, quando chiamavano gli esercenti che li volevano, lui per piazzare anche il mio film, diceva: E io non ti dò Django! In questo modo era riuscito a assicurarsi il loro interesse. E a assicurarsi un'uscita al cinema Corso di Roma, che allora era il massimo, per tre giorni. Il film rimase su un mese e fu poi un successo ovunque. Anche perché era successa una cosa abbastanza strana. Qualcuno mi aveva detto di tagliare la scena dell'orecchio perché era troppo forte. Ma non la tagliammo da tutte le copie. Così in alcune copie c'era e in altre no. E la notizia si diffuse rapidamente suscitando l'interesse del pubblico. Poi reintegrammo la scena in tutte le copie".
Distribuito a Pasqua 1966 (frase di lancio: "Un film che conferma l'alta qualità e l'eccezionale successo del western italiano"), fu un successo immediato. Sbaragliò l'avversario diretto nelle sale italiane, il vero western americano I 9 di Dryfork City di Gordon Douglas, che vantava come frase di lancio "Un western da 4.000.000 di dollari." Ne parlarono bene anche i quotidiani del tempo, come "Il messaggero": "Merita senz'altro d'essere annoverato tra i migliori film del genere prodotti in questi anni." Popolare anche in Spagna e Germania. Purtroppo non venne distribuito in Usa se non molto tardi, perché il distributore, ricorda Bolognini, morì prima di lanciarlo sul mercato. In Gran Bretagna, poi, uscirà solo dopo ventisette anni, quando Corbucci era ormai morto. Le prime versioni doppiate in inglese erano atroci e tagliate. Poi arrivò una copia doppiata dallo stesso Nero in inglese.
Una copia di Django è conservata al Museon of Modern Art di New York.
Da non scordare l'uso supercult che ne hanno fatto il cantante giamaicano Jimmy Cliff e il regista Perry Henzell nel meraviglioso The Harder They Come (1973), sorta di western giamaicano, dove il protagonista vive e muore nel culto di Django e dei suoi cattivi incappucciati. Anche gli Upsetters e il loro capo Lee Scratch Perry fanno una grande versione reggae del film, "The Return of Django", 1968.
E il personaggio di Jango Fett, il bounty hunter di Star Wars nasce proprio come omaggio a Django. Ma il film è adorato da tutti, da Alex Cox, che lo considera il western italiano "par excellence", a Quentin Tarantino. Lo ha visto anche John Wayne e Jack Nicholson, sostiene Franco Nero, voleva comprarne i diritti per farne un remake. Uscito ovunque come Django. Non lo si può non adorare.
Rocky Roberts, portato da Corbucci, canta la bellissima "Django", capolavoro di Bacalov e Migliacci, nel film, mentre nel disco la RCA lo fece incidere a tal Berto Fia. Molto tardi arriverà un sequel, Django Strikes Again (1987), non all'altezza dell'originale. E nel 2007 ne farà una specie di remake giapponese Takashi Miike, Sukiyaki Western Django, con tanto di Quentin Tarantino attore nella parte di Ringo. E poi "Django Unchained" diretto dallo stesso Tarantino, dove Franco Nero ha un cammeo.
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