
DAGOREPORT - DELIRIO DI RUMORS E DI COLPI DI SCENA PER LA CONQUISTA DEL LEONE D’ORO DI GENERALI –…
ATTENTI AL CAGNONE – GNOLI: VITA E OPERE DI UN MARZIANO, UN MATTO, UN MISTICO, UN ILLUMINISTA, UNO SCIAMANO, UN AVANGUARDISTA – IL GRUPPO 63, L'ELETTROSHOCK, IL JAZZ, I LIBRI, GLI SPOT: ‘’HO CREATO CAMPAGNE PARADOSSALI, CON UN OGGETTO INESISTENTE - ARBORE VI SI ISPIRÒ PER IL SUO "CACAO MERAVIGLIAO’’. DOPO LA RELIGIONE LA PUBBLICITÀ È LA PIÙ GRANDE FONTE DI ILLUSIONE”- ‘’L'INDIFFERENZA MI È STATA BUONA MAESTRA DI VITA”
Antonio Gnoli per la Repubblica
Per lungo tempo ho avuto l' impressione di inseguire un fantasma: un uomo dalla consistenza volatile di cui avevo sentito più volte parlare che regolarmente si sottraeva alla presa. Avevo letto qualcosa di suo, in particolare ‘’Dites- moi, monsieur Bovary’’ uno strano e affascinante poema e memoriale in cui la storia del personaggio sembrava portata dal vento per scompigliare le nostre certezze.
Poi accadde che in una rievocazione a La Spezia del Gruppo 63 tornasse flebile e incerto il suo nome: Nanni Cagnone. Aveva per un breve periodo partecipato al movimento guidato da Balestrini e Sanguineti, per poi richiudersi in un lungo silenzio. Non è stato facile stanarlo. Vive a Bomarzo, celebre per i suoi mostri, in una casa semplice che dà su una vallata, con la compagna Sandra, una donna silenziosa che mentre parliamo lavora al computer. La stanza non è grande, ma piacevole.
Lui guarda lei e poi dice che venire a vivere a Bomarzo, sedici anni fa, è stato perché Sandra lo aveva deciso: «L' ho solo seguita, come si segue la cosa più importante della vita. Altrimenti avrei potuto vivere in ogni altra parte del mondo. Perché ogni luogo alla fine è uguale all' altro. L' indifferenza mi è stata buona maestra di vita».
Dove è nato?
«Sono nato a Carcare a qualche chilometro da Altare su una collina che guarda il mare sopra il savonese. Un paese di artigiani: ebanisti e soprattutto soffiatori di vetro. Ricordo le fornaci e i maestri vetrai avvolti nei loro neri mantelli respirare, attraverso le canne da soffio, l' ossido di silicio. E mio padre, medico condotto, che curava i loro enfisemi. Infanzia solitaria, un fratello che sarebbe diventato pittore. Ho ancora negli occhi i grandi cedri del Libano che sono stati abbattuti. La loro perdita mi rattrista più della scomparsa dei miei genitori».
Non li ha amati?
«Non con lo stesso slancio che ho avuto per mio nonno Angelo: portava carrozze dall' entroterra savonese al principato di Monaco. Fu musico e barbiere, calzolaio e contadino, narratore di minime gesta e ammiratore di donne. Uomo inquieto, tutto il contrario del figlio che dalla vita trasse ordine e giudizio. E un certo senso di fanatica equità. Curò fascisti e antifascisti durante la guerra. Il che gli valse un'accusa di collaborazionismo. Rischiò di essere fucilato. Si salvò perché dopotutto era un uomo di fede. E dall'altra parte c'erano solo i primi esempi di trasformismo. Gente che era stata fascista e si era riciclata nella Resistenza. Come poteva essere credibile?»
Furono questi i suoi anni di guerra?
«Furono dopotutto gli anni meno tristi nonostante il collegio e il forte odore di cavoli. I tedeschi passavano lenti. Senza più la baldanza dell' invasore. Eravamo di nuovo liberi. Ma per fare cosa? Presto arrivarono gli anni Sessanta. Il Living Theater con Judith Malina che oscillava tra ritualità e improvvisazione. Furono grandi? Furono in un certo senso unici. Godei perplesso della loro frequentazione. Fu il periodo in cui suonavo jazz con un quartetto americano. Avevo imparato a pensare con le dita. Mi piaceva. In seguito mi iscrissi a medicina. Un anno a Pavia. Forse per far contento mio padre. Ma non resistetti e venni a Roma».
A fare cosa?
«Mi iscrissi a filosofia. Ero influenzato da Wittgenstein in anni in cui nessuno lo leggeva. Mi piaceva il suo rigore, l' atteggiamento verso la vita più che le conseguenze. Arrivai a Roma nel 1960. Le Olimpiadi. Ma quale era la mia specialità? Mi trovavo in una città dall' indifferenza non ostile. Non mancarono le opportunità e gli amori».
Di che tipo?
« Lavorai per la casa editrice Lerici e per la rivista Marcatrè. In quel piccolo mare di raffinata saggistica tentai di portare le mie predilezioni filosofiche. Senso e sensibilia di John Austin, il libro sulla filosofia del gioco di Eugen Fink che era stato allievo di Heidegger; Teoria dell' orgasmo di Wilhelm Reich; Allegoria di Angus Fletcher.
Avevo conosciuto Fletcher a New York. Diventammo amici. Era uno straordinario comparatista. Un uomo ironico e spudorato, allievo di Kenneth Burke. Parlai di lui con Enzo Melandri che all' epoca si occupava del grande tema dell' analogia».
nanni cagnone photographer pino usicco
Scrisse un bellissimo libro " La linea e il circolo", qualche anno fa ristampato da Quodlibet.
«Un libro fondamentale, come tutto il suo pensiero. Con Enzo ci frequentammo poco ma con intensità. L' ultima volta che lo vidi fu in un caffè bolognese. Era un uomo dall' intelligenza medievale, acuminata e profonda. Ma anche in un certo senso mentalmente inibito. Aveva cominciato a bere. Non so quali fantasmi avessero preso a visitarlo».
Anche lei non scherza quanto a fantasmi.
«A cosa pensa?»
Alle sue fughe dal mondo, alla riservatezza estrema, alle case editrici che ha rifiutato, ai dolori mentali che l' hanno colpita.
«Ho imparato a guardarmi come fossi una terza persona; a giudicarmi in maniera impersonale illudendomi di una qualche pretesa oggettività. Ma non sono mai fuggito dalle amicizie vere».
Chi sono stati i suoi amici?
« Quelli di un certo peso interiore come Giuseppe Pontiggia, Amelia Rosselli e soprattutto Emilio Villa».
Ce ne parli.
«Incontrai Pontiggia nel 1975. Gli feci visita e ci capimmo al volo.
Nessuno dei due aveva un temperamento dogmatico. Avevamo la stessa passione per i classici e il medesimo disinteresse per le avanguardie. In quel periodo frequentavo anche Franco Fortini che si era incuriosito ai miei lavori poetici. Uomo di grande intelligenza ma umanamente modesto. Un giorno mi disse che avrebbe voluto fare uscire un mio libro per Einaudi ma che al tempo stesso andava sforbiciato. Si offrì di farlo. Gli risposi che se io non ero Eliot lui certamente non era Pound. Finì bruscamente il nostro rapporto».
Non è stato molto incoraggiante.
«Gli ammirevoli esponenti della cultura italiana furono come i "boys" di Wanda Osiris: quando lei scendeva le scale loro si arrampicavano. Sono stato preso per un marziano, un matto, un mistico, un illuminista, uno sciamano, un avanguardista. Vattimo un giorno mi disse tu scrivi cose bellissime ma io non le capisco. L' unico che provò a definirmi un "classico" fu Emilio Villa».
Per Carmelo Bene il più grande genio che avesse conosciuto.
«Fu poeta, saggista e biblista. Aveva una cultura prodigiosa, una lingua eretica adatta a mondi sconosciuti. Fu amico di Duchamp e Breton. Ci incontrammo la prima volta nel 1964. Diventammo amici. Poteva essere capriccioso e irascibile. Ma la sua virtù massima fu la cordialità. Non parlavamo quasi mai di letteratura. Aveva un volto da commedia plautina. Non gli importava molto del mondo, gli interessavano alcuni dettagli: il vino, le donne, i paesaggi, i bucatini e la coda alla vaccinara. Era epico ed elusivo. Sì fu un genio, senza darlo minimamente a vedere».
Di Amelia Rosselli cosa le è rimasto?
«I suoi versi, certo. È tra i pochi poeti che per me ha senso ancora leggere. Da piccola, mi disse, era stata toccata dalla meningite che le aveva lasciato un senso di estraneità. La realtà per lei era un inconveniente. La schernivano come fosse una povera ragazza. Non l' ho frequentata tanto. Ho preferito perdermi in persone insignificanti sui cui corpi non si leggeva la parola dolore».
Dopo l’attività editoriale alla Lerici come ha campato?
«La casa editrice smise di funzionare nel 1967. Nel 1969 lasciai Roma per Milano. Passai un anno di stenti, di fame e di freddo e di lavori mal pagati. Poi entrai in una agenzia di pubblicità, scalando i ruoli fino a diventare direttore creativo. La città era redditizia, comoda, efficace. Andai ad abitare in via Piatti. Nello stesso stabile venne a vivere Maurizio Pollini. A volte lo incontravo in una sala giochi di via Torino, spesso davanti al flipper. Le sue mani in quel periodo suonavano per la classe operaia. La stessa passione, per il flipper intendo, ce l'aveva Elio Pagliarani».
Per quanto tempo ha fatto il pubblicitario?
« Dal 1970 al 2004. Ho creato campagne pubblicitarie per Olivetti, Adidas, Telecom. A un certo punto mi stancai e decisi di pubblicizzare un prodotto inesistente, per un cliente inesistente. Inventai "Il Tuorlo Palucca", perché comprare un uovo intero quando puoi prendere solo il rosso? Negli anni Ottanta Milano fu tappezzata da questi cartelloni. La gente entrava nei supermercati per chiederne il prodotto. Rispondevano, confusi: ancora non l' abbiamo. Era chiaro il messaggio».
Cioè?
«Dopo la religione la pubblicità è la più grande fonte di illusione.
Il fatto che io creassi delle campagne ironiche, paradossali, con un oggetto inesistente - tra l' altro Arbore vi si ispirò per il suo "Cacao Meravigliao" - era il sintomo di una mia insoddisfazione. Perciò interruppi il mestiere di pubblicitario e creai con un amico la casa editrice Coliseum».
Che anno era?
« Il 1986 e durò fino al 1992. La linea editoriale poteva apparire eclettica, in realtà era comparativistica. Con un' avversione per la mentalità accademica intrecciavo il proto-romanticismo europeo con il pensiero ellenistico, quello arabo-persiano medievale e la mistica ebraica rinascimentale. Cominciai a pubblicare le opere poetiche di Emilio Villa e quelle di Wallace Stevens; una mia traduzione dell' Agamemnon di Eschilo; il commento di Henry Corbin a L'arcangelo purpureo di Sohravardi; un dialogo tra Heidegger e Fink su Eraclito e poi Ernest Bloch, Averroè e perfino un paio di miei libri di poesia: Armi senza insegne e Comuni smarrimenti ».
Cosa le piace della poesia?
« L' integrità che a volte manca anche ai grandi poeti o a quelli che si reputano tali. Penso per esempio che Paul Celan sia sopravvalutato, gli preferisco René Char».
Perché dice sopravvalutato?
«Ha riprodotto i suoi traumi sintatticamente, ma non sempre ha saputo fondere il pensiero con le immagini. Nei suoi testi manca quella necessità che ritrovo in John Dunne o in Auden. Non vi sarebbe integrità senza necessità».
Che intende per necessità?
«Tutto quello che c' è in un verso e che appare indiscutibile. È necessario ciò a cui non si può rinunciare. Conservando una forma di povertà. Non amo i fuochi d' artificio».
C' è qualcosa di penoso?
«Nel senso della pena forse sì. Per tutta la vita ho pensato che il lavoro non mi ripagasse dell' impegno profuso e ho capito tardi che la pena è tutta qui, nel sapere che si fanno mestieri asintotici, mestieri nei quali non si raggiunge mai quello che si vorrebbe».
Come la perfezione?
«Ho sfiorato molte cose nella vita, a volte passando invano come quei viaggiatori che sono permanentemente di passaggio. Ma non ho mai sfiorato la perfezione».
Lei come si vive?
«Con una certa distanza, ho pensato a me come a un terzo, qualcuno che potevo osservare, spiare, al limite detestare».
In fuga dagli altri?
«Le persone mi piacciono, quelle singole intendo, non mi piace il genere umano. Mi piacciono gli amici che si sono allontanati e quelli che non ci sono più. Non faccio grande differenza tra i vivi e i morti, tra il visibile e l' invisibile».
Tipico di un poeta?
«O forse dei matti».
So che ha conosciuto l' esperienza del manicomio.
«Sono stato in un manicomio prima che Basaglia rivoluzionasse l' istituzione. Elettroshock, psicofarmaci potentissimi, docce gelate e poi le case di cura con uno stile di vita meno carcerario».
Quando accadeva?
« Tra il 1962 e il 1964 soffrii di afasia cerebrale. La crisi esplose che ero ospite da Mario Spinella. Preoccupato telefonò a mio padre medico. Che gli rispose: Ah, lei è l'amante di mio figlio! Quel cattolico fanatico vedeva diavoli" ovunque. Oggi non so più il senso di quelle cose. Ma allora fui scagliato in un mondo totalizzante che divorava ogni possibilità. Ho imparato la scaltrezza dello scacchista, anticipare le mosse dell'avversario, per evitare gli elettroshock e le prepotenze che l' ambiente scatenava».
Qualcosa di simile ha vissuto Alda Merini.
«Sì, ma non mi piace che abbia messo la propria follia nel curriculum. Fino a spingere sull' idea insulsa di valorizzare i matti quando non danno più fastidio e si sentono beatamente integrati. Non amo la sua poesia. Troppo esclamativa, enfatica. Sembra una poltrona in similpelle».
Cosa ama?
«Amo il non dipendere dalle circostanze. Dai cosiddetti fatti. Mi interessa ciò che la storia non può offrire. Il vero è solo un' iperbole; il falso è disgustoso. Pensare con sincerità questo è il solo lusso che mi sono permesso».
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