DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Pierachille Dolfini per “Avvenire”
Cristo deposto dalla croce non può stare in piedi da solo, perché nel Sabato Santo del mondo, nel silenzio della contemplazione del mistero della morte, Cristo è (ancora) corpo morto. Agnello, coperto di sangue, immolato per togliere i peccati del mondo. Non ha ancora fatto rotolare via la pietra del sepolcro. Eppure è presente, in questa sua (apparente) assenza. Ha bisogno quel Cristo di essere sorretto dall'uomo.
Perché altrimenti cadrebbe a terra. Ha bisogno di essere sorretto, per sorreggere. Ha bisogno dell'uomo, ha bisogno di martiri. Di testimoni, come dice la radice greca della parola che, solo a sentirla, evoca subito una morte ricercata e inseguita ossessivamente e voluta ai limiti del fanatismo. Cristo che, in una visione folgorante e per nulla scandalosa, appare corpo inerme e fragile, corpo di donna dalle sembianze di uomo - perché « Dio è padre; più ancora è madre», come ricordava Giovanni Paolo I.
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Visione che arriva nel momento più intenso dei Dialogues des Carmélites di Francis Poulenc così come li rilegge Emma Dante al Teatro dell'Opera di Roma, titolo inaugurale della nuova stagione, diretto da Michele Mariotti, alla sua prima inaugurazione da direttore musicale. Arriva sulle note che introducono il drammatico finale.
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Ed è lì, mentre cercano di sorreggere il corpo di Cristo che vacilla, che le carmelitane (le sedici religiose del carmelo di Compiégne condannate alla ghigliottina dalla Rivoluzione francese nel 1794, storia vera raccontata da Georges Bernanos e messa in musica nel 1957 da Poulenc) diventano testimoni.
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Martiri. Ce lo racconta con una delle sue visioni, che possono apparire disturbanti, perché crude, al limite del sopportabile, ma in realtà illuminanti Emma Dante. Che fa dei Dialogues di Poulenc una parabola cristologica.
Salgono alla ghigliottina le carmelitane. Forti di portare Cristo con il loro corpo. E non c'è il patibolo in scena, non c'è la ghigliottina. Ma ci sono tante cornici. Dorate. E desolatamente vuote. Tante cornici come all'inizio, quando nella casa del Marquis de la Force quelle cornici erano piene di ritratti di donne. A raccontare - così ha detto più volte la Dante - chi erano le carmelitane prima di entrare in convento.
Ora, in quelle cornici, ci sono loro, le carmelitane come sono oggi, quando si compie la loro testimonianza. Una sottoveste bianca, ognuna in una cornice. Vanno incontro alla morte cantano il Salve Regina che Poulenc scrive impastando gregoriano e polifonia, rivestendo il canto di una serena inquietudine che Mariotti restituisce magnificamente dal podio, al culmine di una lettura tesa e meditata, dove la vita è stata raccontata anche attraverso la leggerezza e la sensualità oltre che con la gravità della morte e la forza spirituale del sacrificio.
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Un canto quello del Salve Regina che si scarnifica poco a poco, perché le voci delle religiose sono falcidiate dalla lama - e ad ogni colpo ecco calare una tela bianca all'interno della cornice, a far diventare luce i corpi delle carmelitane - mentre invocano la «madre di misericordia» alla quale chiedono di rivolgere «a noi quegli occhi tuoi» e di mostrare «dopo questo esilio, Gesù». E appare Cristo. Sulla croce. Ma non è lo stesso Cristo di prima, quello deposto e sorretto dalle carmelitane. Cristo ora ha il corpo e il volto (e il piede fasciato) di Blanche, soeur Blanche de l'Agonie du Christ.
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Che ha attraversato il suo Getsemani, le sue paure (che l'avevano portata a fuggire dal convento subito dopo essersi votata al martirio) e si è fatta immagine viva e testimone di Cristo.
Donne, le carmelitane, che hanno scelto la strada della preghiera e della contemplazione e che, una volta chiamate a rendere testimonianza della loro fede, l'hanno data. Senza paura? Certo che no, nonostante la corazza da guerriere, da combattenti per la fede. Perché Poulenc racconta le paure dell'uomo. La paura della morte.
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Lo racconta anche Emma Dante mettendo in campo tutto il suo immaginario di donna del Sud, vivido, ma allo stesso tempo cupo (anche a tratti esteticamente sghembo e disturbante) che si traduce nelle visioni che tornano ossessivamente nei suoi spettacoli: la croce, i corpi feriti e offesi, una ritualità di gesti coreografici. Tic, mantra che qui funzionano molto bene, più che in altri contesti in cui l'ossessione per la religione mal si adattava alla trama.
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Spettacolo fatto di immagini forti. La scena finale, la scena del carcere dove le cornici, messa una di fronte all'altra, disegnano un corridoio verso la morte che dà l'illusione ottica dell'infinito. La scena del Qui Lazarum resuscitasti con la "deposizione" del corpo della Vecchia priora, lavato e profumato, prima di essere messo in un sudario e adagiato sotto un ossario fatto di cinquecento teschi. E la scena della morte della vecchia priora, Madame de Croissy, intensa e drammatica grazie ad una Anna Caterina Antonacci superlativa, attrice di un'intensità disarmante, musicista che sa restituire magnificamente la scrittura di Poulenc.
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Scrittura che Mariotti restituisce, grazie alla bella prova dell'orchestra dell'Opera di Roma, mai tagliente, spigolosa, sconquassante, ma avvolgente, seducente anche, accompagnandoci in un percorso che è umano e spirituale.
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Quello delle carmelitane che affrontano, ciascuna in modo diverso, l'incontro/ scontro con la (paura della) morte. Mariotti sbalza i caratteri delle religiose, seguendo i temi che "raccontano" ognuna di loro. Il tema di Blanche che Corinne Winters disegna in perenne bilico tra esaltazione e depressione, attraverso una voce musicalissima e un talento di attrice che lascia il segno.
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Soeur Constance ha lo squillo e l'immediatezza di Emöke Baráth, Madame Lidoine, la Nuova priora, il fiume di voce di Ewa Vesin. Ekaterina Gubanova, voce di rara bellezza che il mezzosoprano usa magnificamente, disegna con verità inquieta i tormenti di Mère Marie. Jean-Francois Lapointe e Bogdan Volkov lasciano il segno come Marquise e Chevalier.
Irene Savignano e Sara Rocchi guidano con autorevolezza le carmelitane (artiste del coro dell'Opera diretto da Ciro Viscovo) verso il patibolo. Solo una sottoveste bianca. Come è bianca la tela che cala ad ogni colpo di ghigliottina. Sulla quale dipingere un nuovo ritratto. Che ha il volto di quel Cristo che le Carmelitane hanno testimoniato.
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