DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
LOREDANA BERTE TRASLOCANDO BIOGRAFIA
Estratti dalla biografia di Loredana Berté, scritta con Malcom Pagani, ''Traslocando - E' andata così'', edita da Rizzoli
Come mi inventai United Colors of Benetton e incontrai quello stronzo di Oliviero Toscani.
(…) Anche se non puoi prevedere tutto e anzi, a volte, non puoi prevedere proprio niente, e le cose peggiori o migliori ti succedono quando meno te lo aspetti. Luciano Benetton lo ha sempre saputo. Fin da quando a Rio lo portai al concerto di Djavan in una notte di più di trent’anni fa. Djavan era una divinità della musica e un genio assoluto, con cui avrei poi collaborato un paio d’anni dopo – nel demenziale scetticismo di quelle teste di cazzo dei discografici italiani – per il disco Carioca.
Salimmo a bordo di una corriera distrutta, arrivata all’appuntamento sul ciglio della mezzanotte con due ore abbondanti di ritardo. Luciano sembrava perplesso e avanzava qualche legittimo dubbio: «Scusa Lory, ma dove staremmo andando esattamente?».
Percorremmo decine di chilometri e a notte fonda arrivammo in uno stadio che conteneva duecentomila persone. Un oceano di magliette. Ragazzi e ragazze dei continenti più diversi. Guardando la folla felice ebbi un’illuminazione: «Ci pensi, Luciano? Uno è indiano, l’altro cinese, l’altro afroamericano e sono qui tutti insieme». Benetton si rianimò: «Ma lo sai che mi hai dato un’idea della madonna?».
Ancora non potevo saperlo, ma il suo progetto più famoso, United Colors of Benetton, nacque proprio quella sera. Mesi dopo, con la scusa di chiedergli di farmi da testimone di nozze con Berger in quello che allora pensavo sarebbe rimasto l’unico matrimonio della mia vita, andai a batter cassa con un certo piglio: «Luciano, io ti ho dato l’idea. Tu adesso che mi dai?». «Uno dei migliori fotografi del mondo.»
Mi prestò Oliviero Toscani per immortalare la band, ma l’antipatia reciproca fu immediata. Toscani era uno stronzo. Una divetta scostante e superba. Ci avrebbe dovuto fare i manifesti gratis, ma non ne aveva alcuna voglia e non faceva niente per nascondere il pessimo umore. Allora decidemmo di farlo impazzire e di fare le bizze.
Ci diceva di stare in una certa posizione e noi gliela cambiavamo sotto il naso: «Così non riuscirò mai a prendere la luce giusta» si lamentava e noi, bambini dispettosi, Gian Burrasca, zingari del palcoscenico, ce ne fregavamo. Ci aveva messo sul jumping a saltare: «Così restituisco un’idea di movimento».
A me sembrava una stronzata. Glielo dissi. Lui mi guardò con l’aria del genio conclamato che osserva e compatisce una povera demente. In verità avevo perfettamente ragione, perché in pochi minuti, tra un salto e l’altro, metà della band si ritrovò a vomitare: «Non me pare che stiamo anna’ tanto bene, che ne dice, maestro?». Eravamo forse meno artisti di Toscani? Meno interessanti? Meno affascinanti? Non ne ero affatto convinta. (…)
Le canne di John McEnroe e gli scorpioni fritti
(…) I tennisti sono involucri fragili. Bambini. Nevrotici e felici a seconda del gioco, della vittoria di un set o di un momento liberatorio in cui tornare a essere persone al di là dei tornei, delle interviste o degli allenamenti. A New York avevo visto John McEnroe impazzire durante un concerto di Santana e salire sul palco all’improvviso per duettare con Carlos. A John del tennis fregava poco. Sicuramente meno di quanto amasse la musica.
Si faceva le canne e animava l’eterogeneo gruppetto che si dava appuntamento nel locale che Jim Belushi aveva rilevato nei dintorni del porto. Era un anfratto di quarta categoria, con le mignotte come avvoltoi rapaci sulla porta, che Jim aveva comprato in una notte di follia e generoso sperpero. Camminavamo insieme e gli venne sete. Si fermò davanti alla porta e chiese semplicemente: «Qui si beve?».
«Certo che si beve, è aperto.» «Quanto costa?» «Ma quanto costa cosa?» «Il locale. Da adesso è mio. Lo compro.» E lo comprò davvero riempiendolo dei suoi amici. C’era Woody Allen che non sapeva suonare la chitarra, ma attaccava il jack alle casse e gli bastava per essere felice. C’era John e ogni tanto c’era anche Björn. Per una volta senza divisa da tennista né da diplomatico.
Borg era stato nominato ambasciatore della corona dai regnanti di Svezia e, da persona momentaneamente sana, girava il mondo con me per pubblicizzare il proprio Paese. Tre settimane all’anno le trascorrevamo in viaggio di Stato. Erano i soli momenti di lucidità. A Singapore, dove in aeroporto ti facevano lasciare le sigarette e le gomme perché, spiegava meccanica la guardia, «Non si può fumare né masticare chewing-gum all’aria aperta altrimenti le strade si sporcano», strafarsi non era facile.
In quei viaggi mi divertivo. Vedevo il mondo da un’angolatura privilegiata.(…) Una volta, a cena con l’imperatore del Giappone, mi accorsi che io e Björn eravamo seduti lontani. Scambiai di soppiatto i segnaposto e mi accomodai vicino a lui. Accorse un addetto, terrorizzato: «Signora, è vietato».
Mi feci rispettare: «E chi l’ha detto che non si può? Senti, cocco, quello è mio marito, vedi d’annattene». A cena portarono scorpioni fritti. «Sono a dieta» dissi, «mangiateveli voi». Mi guardarono malissimo e gli scorpioni alla fine li mangiò un altro tennista più conciliante, Stefan Edberg (…)
I Baby Doll di Loredana e le paranoie di Borg
(…) Quei viaggi erano un diversivo, ma al rientro Borg tornava invariabilmente ai suoi fantasmi. Alla sua scissione interiore. Alla mania per la cocaina e a quella non meno accarezzata del ritorno all’agonismo. Per un breve periodo, inseguendo la chimera della resurrezione, andammo a vivere a Londra. Reggia nei pressi di Hyde Park e trasferimento quotidiano in pulmino a Wembley.
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Un’ora e mezza di strada ogni mattina per andare a vedere l’ex campione, a cui i puristi di Wimbledon si erano inchinati, allenarsi come un dilettante. Di sesso neanche a parlarne. Il guru che aveva preso a seguirne la condotta spirituale lo sconsigliava vivamente. Non mi poteva scopare, diceva. Più lui sosteneva la teoria, più io indossavo baby-doll da urlo. Ma era anestetizzato.
Mi guardava come una creatura aliena: «Ma non hai freddo, Loredana?». Dopo otto mesi senza sesso, mi ruppi i coglioni e me ne andai. Lo facevo periodicamente. Alternando momenti di fuga ai mesi passati in Svezia nella sua villa. Viveva davanti al mar Baltico, in un posto magnifico, immerso in un costante stato di paranoia. Björn non aveva assunto domestici perché diceva: «Sono giornalisti travestiti per entrare in casa mia e sputtanarmi».
Così ogni settimana, in preda a un nuovo allarme, chiamava i bonificatori. Arrivavano squadre di omini vestiti di grigio con apparecchiature ultramoderne. Soldati zelanti che sapevano che una parte del mestiere consisteva nell’alimentare e tenere vivi i fantasmi di Borg. Mio marito voleva ripulire l’ambiente perché era convinto che la villa fosse piena di cimici, ma alla fine, in mancanza di servitù, la schiava deputata a far splendere il castello ero io. (…)
Mimì, la sfortuna e gli ultimi giorni
(…)
Da qualche mese aveva iniziato a stare veramente male. Vedeva topi ovunque. Era smarrita. Perduta. Affranta da troppi anni di maldicenze e invenzioni. Quella storia della sfiga, l’etichetta volgare e vigliacca che le appiccicarono addosso come fosse un prodotto da bancone del supermercato, la umiliava e la feriva.
La leggenda era nata all’inizio degli anni Settanta. C’era stato un concerto in Sicilia. Era finito tardi. Mimì si era raccomandata con la band: «Avete l’albergo pagato, dormite qui, mi raccomando». Ma i ragazzi, come capitava allora, avevano pensato di arrotondare la diaria viaggiando di notte. Ebbero un incidente, fecero un frontale, ci furono dei morti e i giornali iniziarono a pubblicare foto degli spartiti di Mimì insanguinati e a insinuare che non avesse voluto pagare l’hotel.
In un ambiente falso e scaramantico com’è quello della musica, bastò e avanzò. «Mimì porta iella» si diceva a mezza voce e l’infamia si fece largo. L’aveva combattuta a lungo. Al tempo dei rifiuti continui, delle spalle voltate e degli amici di un tempo che facevano finta di non conoscerla, Mimì era tornata indietro alla ricerca delle proprie origini. Si era trasferita a Bagnara Calabra. Proprio in un posto che odiavo e non avevo mai capito, mia sorella era andata alla ricerca dei perché.
Ma di fronte alla cattiveria che ti uccide, le ragioni sfumano. I colpevoli evaporano. I nessi si sfilacciano. In Calabria, Mimì cercava di riannodarli cucendo le reti dei pescatori al tramonto e poi di notte partiva con loro. Ci discuteva. Li ascoltava. Si confidava. Parlava inglese, francese, il greco persino. E conosceva meglio dei vecchi marinai le insidie del dialetto calabrese. Con le lampare accese, il mare scuro, il caffè a bollire sul pentolino, il motore che butta fumo, le onde.
Mimì aveva nuotato controcorrente, ma nonostante a un passo dalla fine cantasse in modo divino, pareva aver perso forza e voglia di continuare a farlo. Dopo la parentesi di Bagnara, si era ritirata per un periodo a Calvi dell’Umbria. Mandai Renato in avanscoperta, ma in quel momento Mimì non voleva vedere nessuno. Gli stavano sul cazzo tutti. Da Renato in giù.
Andò a Milano, poi prese quel monolocale a Cardano al Campo. A un passo da Malpensa. Con gli aerei che le rombavano sopra la testa, la puzza di benzina, le grate alle finestre e la solitudine intorno. L’appartamento, un appartamento del cazzo, glielo trovò nostro padre. Le avrebbe potuto trovare un castello, ospitarla, accudirla, ma le riservò il peggio. Il posto più degradato, anonimo, immeritato per qualsiasi finale. (…)
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