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Arianna Finos per "La Repubblica"
Per farsi un'idea di quale sarà il verdetto alla prossima Mostra di Venezia basterà guardare il documentario sul presidente di giuria: Bertolucci on Bertolucci.
«L'ho visto dieci giorni fa - racconta lui - mi ha provocato un lieve stato di shock. Come faccio a giudicarlo? Sono sempre io che parlo per quasi due ore. La prima reazione è stata: tagliatene metà . Sfido chiunque a rivedere se stesso in una lezione di cinema che per me è una spietata macchina del tempo che porta lo spettatore avanti e indietro. Mi sono visto a 22 anni, a 50, a 25, a 70 senza soluzione di continuità . Inevitabile qualche soprassalto, ma siccome bisogna ricordarsi di essere ironici su se stessi, devo dire che la successione delle mie cravatte, nel tempo, quella mi è piaciuta».
Il documentario di Luca Guadagnino e Walter Fasano passerà sabato nella sezione Venezia Classici. «Luca ci ha lavorato due anni e non ci siamo mai incontrati». Il cineasta 72enne racconta con allegria la fitta agenda delle prossime settimane. Assegnato il Leone, assisterà al ritorno in sala dell'Ultimo imperatore in 3D, il 10 e 11 settembre, per Videa, in 150 copie.
Bertolucci, si è riconosciuto nel documentario di Guadagnino?
«Fin troppo. Anche nelle contraddizioni. In un montaggio ironico, mi becca in castagna sul fatto che un anno esprimo un giudizio, e l'anno dopo l'esatto contrario».
Quali ricordi dietro le immagini?
«Ho cercato d'individuare certe serate lontane, anonime camere d'albergo, una piscina a Cannes per parlare di Novecento. Ma nella memoria tutto si tiene. à come uno scanner che non guarda la cronologia, ma il discorso che faccio. E anche se c'è contraddizione,
credo, nel mio parlare di cinema, nella mia passione, il risultato è un discorso in divenire, come nel cinema».
Una passione che eserciterà da presidente della giuria della Mostra.
«Sono molto curioso. Sulla carta, quello di Alberto Barbera è un programma che ha la sua forza nei rischi che prende. In giuria cercherò di trovare una bella armonia. Sono tutte persone che rispetto molto. Andrea Arnold ha fatto un film bellissimo, Fish tank, in cui per la prima volta ho visto Michael Fassbender. Alcuni giurati mi sono cari: Sakamoto e Carrie Fisher per esempio.
Carrie non la vedo da anni. Sua madre è Debbie Reynolds suo padre Eddie Fisher, sua madrina Liz Taylor anche se aveva rubato suo papà a sua mamma. La ricordano tutti come la principessa Leila di Star Wars ma poi è diventata una bravissima scrittrice. E bello anche ritrovare Ryuichi Sakamoto, che ha scritto la musica di tre dei miei film. Il cinema è così: finito il lavoro ci si saluta come per vedersi all'indomani, poi passano decenni».
Sakamoto ha firmato le musiche dell'Ultimo imperatore, che sta per tornare in sala in versione tridimensionale.
«L'ho visto a Cannes e mi sembra magico: il 3D regala distanza, spazio tra i personaggi e gli ambienti. Soprattutto i grandi cortili e gli spazi della Città proibita. Siccome lo rilanciano, è come se il 3D gli desse una nuova vita. Mi ripaga così di non aver potuto fare Io e te in 3D».
Un film da nove Oscar, che celebra il suo amore per l'Oriente.
«Il mio primo incontro con l'Oriente è stato un viaggio in cui io e mia moglie Claire ci siamo conosciuti e riconosciuti. Mi portò in Thailandia, a Bali, a Kathmandu. Poi venne il Giappone, dove andai nell'83 per l'uscita di Novecento. La censura giapponese invece di tagliare i momenti di nudo, faceva disegnare nuvolette, quasi di penna biro, sopra il pube degli attori.
Tempo dopo il produttore Franco Giovalè mi diede da leggere il libro Da imperatore a cittadino, autobiografia presunta dell'ultimo imperatore cinese. Io avevo appena riletto La condizione umana di Malraux che si svolge nella Shangai del '27. Con questi due progetti volai nell'84 in Cina: primo impatto con la città proibita, e da lì innamoramento assoluto».
Cosa ricorda?
«In un villaggio sperduto i bimbi toccavano i peli delle mie braccia e ridevano, non avevano mai visto prima un occidentale. E poi quel meraviglioso odore di aglio negli ascensori stracolmi dei grandi alberghi. Banchetti lunghi ore, fino a cinquanta piatti con nomi bellissimi e sofisticati, pieni di eufemismi. Uno dei primi giorni, in un ristorante a Nord della città proibita, mangio una zuppa: tigre, fenice e dragone. Scopro poi che la fenice era la gallina, il dragone un serpente e la tigre un gattino».
Poi l'incontro con i cineasti cinesi.
«Come faccio sempre quando arrivo in un paese nuovo, chiesi se ci fosse una Nouvelle Vague cinese. Ne incontrai un gruppetto: tra loro Zhang Yimou e Chen Kaige che poco dopo fece Addio mia concubina. Chen mi ha spesso ricordato il discorso che feci ai giovani registi: "Smettete di fare piccoli film che somigliano al neorealismo sovietico, usate la vostra incredibile storia, non abbiate paura di pensare in grande».
E il buddismo?
«Negli anni 80 avevo deciso di allontanarmi da un'Italia che mi sembrava iniziasse a essere molto corrotta. La Cina è stata un altrove in cui ho amato perdermi, e subito dopo venne l'altrove del Sahara di Il tè nel deserto, e l'altrove del buddismo e dell'India di
Piccolo Buddha. Questi tre film sono legati dal bisogno di evadere dalla realtà del mio paese che in quel momento non mi piaceva. Questi luoghi mi hanno regalato il mito della scoperta, insegnato a ritrovare sempre la meraviglia della prima volta. Il mio sogno è un eterno primo incontro con amici che conosco da una vita. E da questa Mostra spero soprattutto nella gioia di tante forti sorprese».
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