
DAGOREPORT – COME MAI IMPROVVISAMENTE È SCOPPIATA LA PACE TRA JOHN ELKANN E FRATELLI D’ITALIA? IL…
Paola Zanuttini per “il Venerdì -la Repubblica”
New haven. Prima di parlare del Sublime, tema molto caro al vetusto e controverso principe dei critici Harold Bloom, bisogna dar conto di qualche mediocrità. L’anno scorso, appena uscito negli Stati Uniti il suo The Daemon Knows: Literary Greatness and the American Sublime, è partita la solita zuffa.
Tagliando e incollando qualche riga estrapolata dal ponderoso tomo, Vanity Fair ha presentato i dodici autori americani che a parere di Bloom incarnano «lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo»: Whitman, Hawthorne, Melville e compagnia di defunti maschi bianchi (con l’eccezione di Emily Dickinson).
Due giorni dopo su Book Riot, sito letterario molto popolare e antiaccademico, si è scatenata la blogger Rachel Cordasco che, dichiarando candidamente di non aver letto il libro di Bloom, ha comunque stracciato la Lista dei Dodici proponendone una sua, più contemporanea, multiculturale e bazzicata dalle donne. Inutile dire che si sono presto aggiunte molte altre controliste politicamente correttissime.
Quasi in tutte ricorreva il nome di Toni Morrison, autrice che, secondo Bloom, scrive roba da supermercato e ha ricevuto il Nobel senza meritarlo. D’altra parte, con la giuria del Nobel il critico è in frequente disaccordo: è arrivato a dire che premia idioti di quinta categoria.
Quando gli ricordi queste cose Bloom, che va per gli 86 e combatte con parecchi acciacchi, non spreca il fiato. Sussurra: garbage, cioè spazzatura. In questa intervista, la parola – riferita a libri inutili, autori esangui, accademici in declino, critici infedeli alla loro missione e recensori incapaci– ricorre con la stessa frequenza di Toni Morrison nelle liste di Book Riot. L’hanno definito sprezzante e certo lo era, ma adesso è dimagrito troppo, la baldanza sembra affievolita e garbage assume quasi un significato di autodifesa, la formula per liquidare gli assalti della bruttura: «Sono forse l’ultimo critico barricato sul fronte del Sublime letterario».
Seduto più modestamente al tavolo del soggiorno con un gilet di piumino bordeaux e la cuffia di lana in tinta, ha piuttosto l’aspetto di un bambino montanaro. Soprattutto quando le guance gli si accendono mentre recita (inaspettatamente) La figlia che piange del poco amato T. S. Eliot. «Tutta la mia avversione per la misoginia, l’antisemitismo e la sessuofobia di Eliot si sgretolano davanti a questa poesia». Questo per dire che ideologia e letteratura non andrebbero mescolate, anche se per Bloom con Eliot non è facile.
Oggi The Daemon Knows esce in Italia per Rizzoli con il titolo Il canone americano, che lascia perdere il daimon, ovvero il genio creativo, per strizzare l’occhio a Il canone occidentale, l’opera di Bloom più conosciuta (non necessariamente più letta), che alla sua uscita nel 1994 suscitò parecchi disaccordi. Li suscitò perché nella selezione dei 26 autori che hanno edificato la grande tradizione letteraria dell’Occidente (da Dante a Shakespeare, da Montaigne a Milton, da Cervantes a Borges, da Molière a Proust, da Freud a Virginia Woolf, fino a Beckett) non c’era un vivente.
Non che Bloom detestasse tutti gli scrittori vivi o quelli morti da poco, ma a suo parere nuotavano, alcuni molto bene, in acque già solcate dagli augusti precursori. (Lui poi sostiene che la profezia canonica va messa alla prova per due generazioni dopo la morte di uno scrittore).
Nelle intenzioni di Bloom Il canone americano non è un canone, ma non ha fatto tante storie con la Rizzoli su quel titolo furbetto. Per scoraggiare fraintendimenti, polemiche e giochi della torre anche in Italia, conviene dargli spazio, molto spazio, per raccontare come è nato e che cosa è il suo nuovo libro.
«Sei anni fa provo a fare uno spettacolo su Walt Whitman, ma dopo un po’ mi arrendo: più lo conosco come poeta, più lo perdo come persona. Credo che Whitman si sia cancellato deliberatamente. Allora decido di scrivere un libro sulla sua poesia e, di lì a poco, mi chiedo: cosa c’è di altrettanto titanico nella letteratura americana? Moby Dick. Ecco quindi la prima sezione Whitman-Melville.
Ma Whitman deriva da Ralph Waldo Emerson che, mezzo secolo fa, mi ha folgorato e mi è stato di grande aiuto in un periodo di profonda crisi. Nella seconda sezione metto quindi Emerson e con lui Emily Dickinson, perché è la più importante poetessa americana dopo Whitman. Passo alla narrativa, declinata dai nostri grandi sul romance: il maestro del genere è Nathaniel Hawthorne, che ha avuto una potente influenza sull’ottimo Henry James. E siamo alla terza.
Nella quarta decido di inserire due autori che, a differenza dei precedenti, hanno avuto un grande pubblico e un considerevole potere letterario in vita: Mark Twain e il poeta Robert Frost. Quindi comincio a pensare ai poeti che mi sono piaciuti di più: Wallace Stevens e Hart Crane. Stevens ha vissuto un agone continuo con Eliot, così ai duellanti spetta la quinta sezione. Nella sesta mi concentro sugli autori americani più ambiziosi, William Faulkner e Crane che è la mia passione da quando avevo dieci anni. È libro complesso, una sfida forse troppo difficile, ma penso sia migliore del Canone occidentale».
Nota a margine. A dieci anni, il piccolo Harold figlio di immigrati ebrei che parlano solo yiddish, si innamora di un poeta ostico come Crane e si interroga sul perché Melville non abbia inserito in Moby Dick alcune citazioni del Libro di Giona: ma che bambino era? «Molto sensibile, la poesia mi consolava, forse per questo ne ho imparate così tante che recito ancora, di notte, bisbigliando per non svegliare mia moglie. La scuola ebraica ha sviluppato la predisposizione per l’esegesi. E forse i geni di un bisnonno rabbino influiscono».
Bloom ammette di essere «un critico empirico e personalizzante»; nel libro, che è impegnativo quanto fascinoso, ci si può interrogare sull’attendibilità delle visioni o di qualche elucubrazione. Prendiamo pagina 279, dove si parla di La lettera scarlatta e in particolare dell’eroina: «Hester costringe Hawthorne a uscire dall’ambito del romance per entrare in quello del romanzo psicologico, il che è un segno della sua relativa libertà e della curiosa schiavitù del suo autore, della incapacità di quest’ultimo di rendere conforme alle proprie aspettative morali il suo personaggio più poderoso.
Hester inganna gli altri, e per un po’ anche se stessa, ma non permette a Hawthorne di illudersi. Lui forse avrebbe preferito vederla come una dark woman». Una protagonista che spadroneggia sulla trama è una bella invenzione, ma quanto dimostrabile? Insomma, il più autorevole critico vivente si è mai accorto, a posteriori, di averla sparata grossa? «Certo: bisogna sbagliare. Nietzsche diceva che gli errori nella vita sono necessari alla vita e, nella lettura, alla lettura. Hai visto cosa hai fatto e fai meglio. E Beckett suggeriva di sbagliare, sbagliare di nuovo e sbagliare meglio».
È a Yale dal 1951 Harold Bloom. Ha insegnato in molte altre università, anche italiane, ma questa è la sua casa madre, non senza contrasti. Nel 1976 ha mollato il Dipartimento di Inglese: «Quando ho visto che prendeva il sopravvento la School of Resentement». La definizione, coniata da lui stesso, si riferisce a quegli accademici risentiti che nella critica letteraria antepongono, o accompagnano, ai valori estetici quelli ideologici: marxismo, multiculturalismo, femminismo, poststrutturalismo eccetera. Continua a insegnare, è Sterling professor – la carica più prestigiosa conferita a Yale – di Studi umanistici.
Tiene lezione nel suo soggiorno a una dozzina di giovani studenti: quelli della specializzazione o dei master non li vuole «perché li hanno già rovinati». Le materie sono due suoi cavalli di battaglia: Shakespeare il martedì e influenza poetica (ovvero il conflittuale debito d’ispirazione che gli autori hanno con i loro precursori) il giovedì. A questi studenti, che cita spesso nel libro, il professor Bloom non teme di insegnare cose sbagliate?
«Quello che insegno non è sbagliato, alla mia età è come acciaio temperato. Insegno dal dentro al fuori, non al contrario. Parlo da dove è la poesia, dal cuore della visione. Questa conoscenza è stata raggiunta in una lunga vita trascorsa leggendo bene e profondamente, meditando su cos’è la scrittura e restando in contatto con una manciata di critici occidentali che fanno la differenza».
I critici, appunto. Una volta ho chiesto a Philip Roth notizie su Michiko Kakutani, la critica del New York Times che lo stroncava sempre: mi ha risposto che non era importante. Era solo una giornalista che redigeva recensioni, mentre i veri critici come il suo amico Harold Bloom non perdono tempo con le recensioni:
pensano ai libri, ci scrivono i saggi. In realtà il caro amico Harold prima le scriveva anche, le recensioni, e proprio sulla Book Review del NYT, poi un articolo pubblicato dal giornale per il ventennale del Canone occidentale l’ha così irritato da fargli troncare ogni rapporto di lettura o collaborazione con la testata. Ma se il vero critico non si abbassa a recensire la produzione corrente il povero lettore a chi si rivolge?
La risposta di Bloom è un po’ irritante. «C’è poco tempo: perché sprecarlo con questa spazzatura invece di rileggere la Divina Commedia? Il mio compito è insegnare e scrivere i miei libri, non leggere questa spazzatura per comunicare al pubblico che è spazzatura. Il mio precursore Samuel Johnson, la figura che ho emulato, diceva che la funzione della vera critica è trasmutare le opinioni in conoscenza. Questo è il mio lavoro». Qui ci vuole un correlativo oggettivo: le note maestose e canoniche emesse dalla filodiffusione (col volume che non si riesce ad abbassare) sottolineano a dovere la gravità di Bloom.
Nel Canone americano si parla di religione americana. Una religione in cui Whitman si vede come un sole che irradia e il capitano Achab è pronto a colpirlo, il sole, se l’astro ha la malaugurata idea di offenderlo. «Dei miei Dodici solo uno è cristiano, anzi, neocristiano, Eliot; per il resto sono trascendalisti. Il nuovo americano è un dio-uomo che si è creato da solo e, se Dio o Gesù viene a lui, gli accade solo quando è in perfetta solitudine e libertà».
Ecco, la solitudine: nel Novecento americano, anche nel secondo dopoguerra, ci sono scrittori, comunque defunti, che hanno raccontato la solitudine. Snocciolo un rapido elenco: Hemingway, Fitzgerald, Salinger, Carver, Cheever («Chi? Ah, un brav’uomo, giusto uno scrittore di storie»), Richard Yates («Revolutionary Road era buono, ma niente»), Nathanel West. Responso finale: bravi o bravini, per carità, ma nessuno è canonico. Inutile citare i viventi o i morti recenti, che parlino di solitudine o meno.
Il critico promuove, e non per tutta l’opera, solo Roth, DeLillo, Pynchon, Cormac McCarthy e John Ashbery tra i poeti. Scrittrici, niente. Stephen King è il male assoluto, provo a paragonarlo a Balzac, solo in termini di iperproduttività. Nessuna risposta pervenuta, ma basta lo sguardo quasi offeso di Bloom che, nel libro, tra un Sublime e l’altro dà una stoccata pure a Franzen e Wallace: «Ci troviamo di fronte a una crisi di vasta entità quando le opere contemporanee non sono in grado di realizzare le proprie ambizioni (Infinite Jest di David Foster Wallace, Libertà di Jonathan Franzen)».
È scontato ipotizzare che a un ottantaseienne il presente faccia un po’ schifo (anche se ha in programma un nuovo libro, Possessed by Memory, excursus tra poesie e prose molto amate e immagazzinate nella sua poderosa memoria), ma è altrettanto scontato affermare che la letteratura americana non produce capolavori, al momento.
Comunque il Sublime è dichiarato ufficialmente morto. «È finito con Faulkner e Crane. È una situazione molto triste: il declino culturale, l’avvitamento della speranza, la morte della democrazia. Ormai gli Stati Uniti sono una plutocrazia, un’oligarchia. Guardi a cosa ha portato la reazione alle controculture: a questa orribile involuzione fascista dei repubblicani. La School of Resentement ha vinto nelle università, ormai in totale decadenza, è riuscita a demolire gli studi umanistici mettendo sullo stesso piano i fumetti e i sonetti, gli standard sono collassati, la scrittura cattiva passa per buona.
jonathan franzen david foster wallace
Ho sprecato anni a denunciarli. Basta. Hanno vinto. Pace. Tanto Dante sarà sempre Dante e Shakespeare sempre Shakespeare. E magari in futuro tornerà un po’ di ragione. Intanto resiste un’élite, non riconosciuta dalla società corrotta né dall’accademia degradata. Siamo migliaia, in Cina, Perù, Australia, Slovenia, tutti in contatto. Mi scrivono, io non rispondo, ma mi commuovo: c’è ancora qualcuno che non vuole spazzatura».
DAVID FOSTER WALLACE
CHEEVER 2
002 david foster wallace
dante alighieri divina commedia
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