DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Giancarlo Dotto per “Diva & Donna”
Francesco Clemente Giuseppe Sparanero alias Franco Nero, figlio di Ninetta e di Michele Sparanero carabiniere, ha una vaghissima cognizione della sua età e quando quello pedante ci tiene a ricordargli che sono 80 gli anni suonati, lui non raccoglie e replica a modo suo: “Ho tanto da fare, sono in partenza la settimana prossima per Los Angeles. Come sto? Una bellezza!”.
Questione di Dna (Data Non Accertabile), ma non solo. Nero è semplicemente una delle ultime star del cinema mondiale. Non ci credono gli altri? Il mondo è cambiato? Lo Star System carica a bordo gente improbabile, mezze tacche, mezze cicche, mezze calze e mezze cartucce?
Lui, Nero, se ne frega, gli basta e avanza che sia lui a crederci. Lo fa con regale semplicità. Come dire, senza dirlo: “Io sono Franco Nero, la mia storia mi precede”.
È così che, con la preziosa sponda dell’amico giornalista Lorenzo De Luca, l’ultimo o il penultimo dei Mohicani si è deciso a risalire l’avventura che porta il suo nome, fino alla sorgente, la provincia di Parma, gli odori forti della povertà, la cacca e il concime, di quando dormiva abbracciato a un asino come Gesù Bambino per darsi calore, e poi le sale di biliardo, le prime balere, i circhi di periferie, i miti incubati al buio del cinematografo.
Tutto quel piccolo mondo antico che gli è rimasto dentro, anche dopo che, quasi a sua insaputa, scortato solo da un’immane tenacia e da una non meno immane buona stella gli sono spuntate le stimmate e poi le ali del divo.
franco nero e vanessa redgrave
Django e gli altri (Ed. Rai Libri, 20 euro) è necessariamente un ricco compendio della sua vita. Un grande oceano pescoso, dove c’è solo l’imbarazzo della scelta. Circa 250 film girati in 60 anni di carriera e in tutto il pianeta.
“A fare davvero un libro sulla mia vita ce ne vorrebbero dieci di volumi. Ho girato più di cento Paesi nel mondo e ho conosciuto papi, presidenti, regine, principesse, sempre entrando dalla porta principale”.
Ti capita mai che tutta questa vita ti arrivi addosso di colpo e ti travolga come un’onda anomala, lasciandoti esausto sulla riva?
“Stanchezza no, mai, sono sempre molto brillo…”
Brillo?
franco nero in django unchained
“Nel senso di brillante. Mi aiuta il mio sangue gitano da parte di nonna Maria. Sono un uomo curioso. Insieme alle grandi produzioni ho sempre alternato film improbabili di cinematografie sconosciute, israeliane, cilene, brasiliane. Negli ultimi 25 anni, il 90 per cento del mio lavoro l’ho fatto in giro per il mondo”.
Come succede che Franco Nero decide: è venuto il momento di raccontarsi.
“Sono sempre stato molto discreto, mai avuto un ufficio stampa, niente talk show, sono sempre scappato dai riflettori, per discrezione, forse per timidezza. Ho sempre pensato che degli attori meno ne sai, meglio è. Oggi sai tutto di tutti, niente più miti, niente più sogni”.
E…?
“Mi contatta Rai Libri e mi fa la proposta. Ci ho pensato qualche giorno. Alla mia età posso anche permettermelo, mi sono detto”.
Mentre lo scrivevi, lo facevi leggere a qualcuno?
“No, mai a nessuno. Un lavoro duro. Tutto al telefono. Io non scrivo al computer, non so cos’è un computer. Ore e ore al telefono, giorno e notte. Riversando pezzi della mia vita man mano che salivano a galla. Un incubo”.
Il tuo è ancora il cinema dei miti. Se c’è qualcosa che ci tiene in vita sono i miti, in qualsiasi forma.
“Racconto di quando mi viene incontro Penelope Cruz, con cui stavamo girando a Oviedo, e mi fa: “Ho incontrato al festival di San Sebastiano un giovane regista. Quando gli ho detto che lavoravo con te è impazzito, non stava nella pelle. Era Quentin Tarantino. Io, Franco Nero, ero il suo mito”.
I tuoi miti da bambino.
“Me li sognavo tutti la notte, dopo averli visti al cinema. Paul Newman, Marlon Brando, Henry Fonda, Burt Lancaster. Il bello è che poi li ho conosciuti tutti. Una volta mi chiesero in tv di Tony Bennett. “Ma che Tony Bennett!...Si chiama Antonio Benedetto e ci giocavo a tennis contro, io in coppia con Roger Moore”.
Roger Moore vi sovrastava sicuro.
“Macché! Simpaticissimo Roger, ma una pippa tremenda a tennis! Tony Bennett è la voce più grande nella storia degli Stati Uniti. Me lo disse Frank Sinatra”.
Ti ha quasi adottato John Huston all’inizio della tua storia.
“Gli devo tutto. Vide le mie foto e mi scelse per fare Abele nel kolossal La Bibbia. Mi ha insegnato l’inglese, mi regalava i dischi di Shakespeare. Suggerii il mio nome al regista Johan Logan per la parte Lancillotto in Camelot”.
Quella volta che Paul Newman ti chiese l’autografo.
“Per sua figlia che si era invaghita di me dopo avermi visto per l’appunto in Camelot. Rimasi senza parole. Lui e Brando erano i miei miti”.
I consigli di Marlon Brando.
“Lo conobbi nella sua casa di Mulholland Drive. Il suo vicino di casa era Jack Nicholson. Mi disse: “Tu hai fa la faccia da star e devi sempre essere la star nei film che fai, anche se sono solo partecipazioni bravissime”. Aveva ragione”.
L’incontro con Greta Garbo.
franco nero vamos a matar companeros 2
“L’Irraggiungibile per definizione. Ma, grazie all’invenzione di un’amica, riuscii a incontrarla. Non stavo nella pelle. Ci vedemmo più volte. Apprezzava la mia compagnia. Gli raccontavo della mia infanzia e lei mi parlava della sua”.
Sul set di Camelot hai conosciuto Vanessa Redgrave, la tua Ginevra sul set e nella vita. Ti ha dato una mano per il tuo libro, se non altro a ricordare?
“Per niente. Tutta farina del mio sacco. Lei se ne sta in Inghilterra, dove c’è anche nostro figlio Carlo. Ora sta facendo My Fair Lady a Londra. A malapena sa del mio libro”.
Dimmi del vostro primo incontro.
“Da Lancillotto avevo già girato delle scene in Spagna. Continuavo a chiedere chi fosse Ginevra. Me la presentarono in America alla Warner. Arrivò una ragazza con i jeans strappati, lentigginosa, gli occhiali da vista, i capelli disordinati….”.
E tu?
“Sono stato abbastanza freddo. Dissi poi al regista: “Ma sei matto? Questa è una racchia tremenda”. E lui: “Aspetta e vedrai…”. Trovai in camerino un suo invito a cena a casa sua scritto in un italiano perfetto”.
Sei andato?
“Mi apre alla porta una donna di un fascino assoluto. Chiedo di Vanessa Redgrave e lei mi fa: “Sono io”. Ci resto secco. Una trasformazione incredibile”.
Scrivi che il vostro non fu un colpo di fulmine.
“Per niente. Un giorno mi chiese di accompagnare Benjamin Spock, il famoso pediatra americano, all’aeroporto di Los Angeles. Rimanemmo lei ed io, avevamo un giorno libero, decidemmo di prendere il primo volo per San Francisco. Noleggiammo una macchina e girammo tutta la notte per poi finire in un motel di quinta categoria”.
Una storia importante. Forte e bizzarra, tra alti e bassi. Radicalmente diversi. Lei atea convinta, di sinistra e femminista, tu profondamente cattolico e legato alle tue radici. Che cosa vi ha tenuto insieme?
“Penso che lei si sia innamorata follemente di me per la mia semplicità. Andammo a Parma dai miei e fu conquistata da quello che vide. Da quella vita così normale. “Vorrei avere dei figli da te e smettere di fare l’attrice”, mi fece”.
E tu?
“Sei pazza?”, le dissi. “Sarebbe un crimine…”. La più grande attrice di tutti i tempi del mercato inglese che smette per una storia d’amore…Non esiste”.
Attrice suprema.
“La più grande. Lo dicevano tra gli altri Tennessee Williams, Arthur Miller, Sidney Lumet. Meryl Streep dice che ha fatto l’attrice per tentare di emularla”.
Lei follemente innamorata e tu?
“Nei primi anni c’è stata la passione, che poi si è tramutata in rispetto, amicizia. Vanessa può essere tutto per me, mia sorella, mia madre, la mia amante”.
Vi siete ritrovati dopo tanti anni e avete deciso di sposarvi. Nel frattempo avete avuto un figlio e condiviso una tragedia enorme.
“La perdita di Natasha, sua figlia, che io avevo cresciuta come un padre. Mi chiese di accompagnarla all’altare quando si sposò con Liam Neeson. Ero emozionato come non mai. Morì in seguito a una banale caduta sul ghiaccio. Un dolore atroce”.
Vanessa scoprì la fede.
“Era sempre stata atea. Dopo la morte di Natasha cominciò a venire ogni tanto in chiesa con me ad accendere un cero per lei. Nostro figlio Carlo, molto religioso, mi dice che ogni tanto lo accompagna a messa a Londra”.
Ti definisci nel libro “Cattolico cristiano convinto”.
“Ho sempre avuto una grande fede. La sera mi piace fare l’esame di coscienza, come fosse un dialogo con Dio. Ho fatto da poco un video del “Padre nostro” con una cantante tedesca che Papa Francesco ha molto apprezzato”.
Quando ti guardi allo specchio e pensi alla tua incredibile storia che ti dici: quanto sono stato fortunato, quanto sono stato bravo o quanto sono stato bravo a valorizzare la mia fortuna?
“L’ultima che hai detto. La fortuna è trovarti al posto giusto nel momento giusto, ma se poi non sai assecondarla, crolla tutto. Non costruisci niente sulla sola fortuna”.
La storia di Django, il personaggio a cui più ti associano, tra Sergio Corbucci e Quentin Tarantino, un altro capitolo della tua buona stella.
“Non sapevano chi prendere per fare Django. Volevano una faccia nuova. Corbucci e gli altri decisero di portare le foto a Fulvio Frizzi, direttore di Euro International film. Non ebbe dubbi: puntò il dito sulla mia faccia”.
Mezzo secolo dopo, il fantasma di Django ritorna nella tua vita grazie al genio esagitato di Tarantino.
“Un bambinone genialoide. Gli parlai di Giovanni Pascoli. Tarantino era il manifesto perfetto della sua teoria del “fanciullino”. Che quando ti abbandona diventi uno stronzo qualunque. Quentin ama follemente i suoi attori. Finita una scena, diceva (lo imita): “Bello, ma dobbiamo farne un altra e sapete perché?”. E tutti dovevamo dire all’unisono: “Because we love making movie”. Perché ci piace fare il cinema”.
Ne Il giorno della civetta di Damiani, tu figlio di un carabiniere, fai la parte di un capitano dei carabinieri. Un appuntamento sentimentale quel set.
“Fu Vanessa a convincermi. Conosceva il romanzo di Sciascia. Papà Michele, che si era arrabbiato quando lasciai l’università per fare l’attore, fu molto orgoglioso di me. Mi confidò mia madre che lo vedeva al cinema due o tre volte al giorno”.
Passaggi struggenti nel libro, il tuo rapporto con lui.
“Era un uomo molto serio, rideva poco. Veniva da una famiglia di contadini pugliesi. Il suo sogno era pezzetto di terra dove lavorare. Gli comprai due ettari a Velletri, dove ha passato gli ultimi 12, 13 anni della sua vita, facendo il vino, l’olio, allevando polli e conigli. Aveva anche un cavallino siciliano…(si commuove) Piansi disperatamente quando seppi che ci aveva lasciato i suoi risparmi di una vita, circa un milione, una cifra che io guadagnavo in tre ore”.
Un'altra icona del western italiano. Quell’altro incredibile vecchio di Clint Eastwood. 92 anni e nessuna intenzione di fermarsi.
“Siamo uguali, lui e io. Ci tiene in vita la curiosità. Non lavoriamo per i soldi, ma per la voglia di divertirci. La libertà di scegliere. Io rifiuto in continuazione. Ho rifiutato, tra le tante, il maresciallo Rocca, la Piovra, la vita di Verdi…”.
Gian Maria Volontè, il miglior attore italiano di sempre?
“Attore importante, ma il più grande di sempre è Salvo Randone. Mi spiace solo che sia morto semicieco e in povertà”.
Il tuo cast ideale di un western ideale di tutti i tempi? John Ford o Sergio Corbucci alla regia?
“Scelgo Corbucci, un visionario. Nella parte del cattivo Jack Palance sarebbe perfetto, ma io prendo Klaus Kinski. Un antagonista ideale. Un pazzo scatenato. Gli ho salvato la vita una volta sul set. Lo stavano ammazzando tirandolo giù dal cavallo. Ne faceva di tutti i colori”.
Cosa ti aspetti ancora da te?
“Di fare del bel cinema ancora. È in arrivo un film con mio nipote, il figlio di Natasha e di Liam Neeson. Un road movie di un padre e un figlio che devono portare le ceneri della madre a Cuba”.
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