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Testo di Richard Ford per “The New York Times” pubblicato da “la Repubblica”
Per quasi tutti noi, nove fantastilioni di fan di Bruce Springsteen, noi che per anni abbiamo sopportato, con il sole e con la pioggia, i suoi super-concerti evento lunghi tre ore ultraspettacolari, megafaraonici e iperscenografici, noi che abbiamo comprato e ricomprato, album dopo album,
noi che abbiamo studiato al lanternino i testi delle sue canzoni, che abbiamo cogitato sulla sua complessa vita musicale oltre che su quella coniugale, familiare e psichica, tutte ammantate di riservatezza, e noi che abbiamo marcato occasioni di somma importanza delle nostre vite personali con le note di No Surrender che ci scorrevano nella mente convulsa - per tutti noi il fascino perpetuo di Bruce (giuro su quello che vi pare: non l' ho mai gridato durante un concerto) è semplicemente questo: come cavolo si arriva da Freehold, New Jersey, a questo in cinquanta, miseri anni?
Mi fa pensare alla vecchia storiella dell' anziano contadino del Maine che a chi gli chiedeva indicazioni per arrivare al prossimo paesino oltre la collina, sosteneva che da qui era impossibile arrivare lì. E davvero, nella vita di Springsteen o in quella di chiunque altro, è impossibile da qui arrivare lì. Eppure, come dire… eccolo qui. Non ci siamo tutti noi a testimoniarlo?
Dalla nuova autobiografia del Boss, Born to Run, uno si aspetta in sostanza che penetri e metta a nudo questo mistero racchiuso in un paradosso. E in gran parte lo fa, e con eleganza.
Quasi tutti quelli che hanno conosciuto Bruce Springsteen negli anni, dai proprietari del ruvido Upstage Club nella località balneare di Asbury Park nel 1969 ai leggendari talent scout della Columbia Records, John Hammond e Clive Davis, alla sempre fedele e sempre lamentosa, sofferente quanto indispensabile E Street Band, a Ronald Reagan, a Pete Seeger, su su fino a Barack Obama, lo hanno riconosciuto come qualcuno di assolutamente speciale, uno che lo dimostrava tutta la sera sul palco, che aveva un enorme talento, uno che non gli si riusciva a staccargli gli occhi di dosso e con cui non si riusciva mai a essere arrabbiati, anche se aveva una considerazione deliziosamente immodesta delle sue giovani capacità, anche se trattava i suoi compagni di band come impiegati privilegiati e anche se poteva diventare umorale, scontroso et similia quando le cose non andavano come voleva lui.
Si potrebbe dire la stessa cosa - usando parole diverse - dei fratelli Morrison, Jim e Van, di Otis Redding, di Marvin Gaye, di Janis Joplin, perfino di Eric Burdon e senz' altro di Jiles Perry Richardson, "The Big Bopper". Sono e sono stati tutti speciali, a modo loro. Ma speciale non fa di te un Bruce Springsteen che suona di fronte a novantamila persone per trent' anni e passa in quaranta paesi diversi e va ancora alla grande - proprio come qualche mercoledì fa.
La gente che vede l' arte da fuori - dai seggiolini per gli spettatori, com' è previsto che sia - spesso non coglie nel modo giusto il processo di creazione dell' arte. Che è un crimine senza vittima. Ma è anche per questo, perché non cogliamo esattamente quel processo, che schiere di fan sono attratte da Springsteen. L' interezza della sua opera - le canzoni, la musica, la chitarra, la voce, la persona, i volteggiamenti, i recitativi, l' intero artificio della messinscena o quello che Springsteen definisce «la somma di tutte le mie parti» - è talmente densa, complicata e apparentemente autentica da mettere in discussione quasi tutto ciò che sappiamo su come fanno le cose qui, sulla Terra, i normali esseri umani.
Essendo stato presente a molte delle sue esibizioni, posso attestare che spesso ti senti quasi sopraffatto da quello che ascolti e che vedi. È un' esperienza che ti attira verso di lui - per assaporare le cose più belle e più ricche, ma anche, e in modo piuttosto naturale, per smascherare la verità, come se qualcuno ti stesse invece ingannando.
In Born to Run, Springsteen appare vero soprattutto quando ci racconta come si arriva, di fatto, a essere lui. È preoccupato dell'«autenticità », sua e della sua musica, anche se è consapevole che una messinscena è sempre una messinscena. Diventa quasi umile quando parla della sua condizione di "operaio" della musica, quando dice che la musica rock, in fondo in fondo, è «intrattenimento e evasione», e quando riconosce che il rock 'n' roll come portatore di idee (concetto che ho sempre trovato discutibile) è seriamente in declino.
Ma è anche onesto e lucido quando parla di quello che richiede l' intera impresa Springsteen. Talento. Okay, questo è uno. Una grande band a supportarti, sempre. E sono due. Ma anche un' allarmante sicurezza in se stessi a un' età irragionevolmente ancora giovane («In fin dei conti è il mio palco», «la mia band», «la mia volontà», «i miei musicisti »).
Una disciplina quasi feroce che è prontissimo a imporre a se stesso e a chiunque altro gli stia a tiro, soprattutto ai membri della band. Una conoscenza meticolosa ed enciclopedica della storia dei generi musicali e del rock. Un numero assurdo di ore di vita non recuperabili passate a provare, provare, provare in stanze piccole e poco illuminate. Una determinazione inflessibile a non essere nulla di meno che grande, alimentata dalla convinzione che la grandezza può esistere davvero ed essere liberatoria.
Una disponibilità a immaginarsi come un coscienzioso e riconoscente avatar della sua adorata schiera di fan. Un approccio disinvolto nei confronti delle sue influenze, dei suoi maestri e dei suoi eroi. Una consapevolezza fuori dal comune delle proprie fragilità personali («Quanto alla mia voce, la prima cosa da dire è che non ne ho molta»). La certezza, à la Picasso, che tutta l' arte nasca da una «turbolenta sensibilità da gang» figlia delle strade del quartiere.
E una complessa paura di fallire mista alla consapevolezza che spesso proprio il successo è il nemico di quell' autenticità tanto ricercata, e che bisogna quindi stare in guardia ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette. Almeno dal 1967 a oggi.
«Se vuoi bruciare intensamente e bruciare a lungo», scrive il Boss, «devi affidarti a qualcosa di più dell' istinto iniziale. Devi sviluppare una certa maestria e un' intelligenza creativa che ti porti più in là quando le cose si fanno azzardate». E se tutta la faccenda vi puzza un po' troppo di corso di scrittura creativa, aggiungete questo: «All' inizio sapevo che volevo essere qualcosa di più di un artista solista e qualcosa di meno di una band democratica in stile un-uomo-un voto.
Ci ho provato e non faceva per me. La democrazia in una rock band, con pochissime eccezioni, spesso è una bomba a orologeria. Moderato in quasi tutti gli altri aspetti della mia vita, su questo sono stato un estremista». E tanti saluti al mito della band of brothers nel radioso Palazzo del rock lassù in cima alla collina. «Tutti diventiamo adulti», aggiunge più avanti Springsteen, «e sappiamo che "è solo rock 'n' roll"... ma sappiamo anche che non è così».
BORN TO RUN AUTOBIOGRAFIA SPRINGSTEEN
Va detto, giusto per tenere vivo quel barlume di credibilità che ho, che tutto ciò che ho inanellato fin qui è già largamente noto da tempo (probabilmente mandato a memoria come al catechismo) al gran mare dei devoti di Springsteen. Recentemente, a un concerto nel Barclays Center - a cui hanno assistito il sottoscritto, mia moglie, il governatore del New Jersey Christie, Steve Earle e diciottomila che non conosco - il Boss ha fatto salire sul palco una ragazzina di dieci anni ed è rimasto a guardare ammirato mentre cantava, in modo apparentemente spontaneo, tutti i versi di Blinded by the Light, cinquecentoquarantasette frastornanti parole.
Il che significa che è difficile che le rivelazioni contenute in Born to Run non siano già state quasi tutte assimilate da quella figura sempre vigile e dall' occhio acuto che è il «fan di Springsteen». È anche probabile che se non avete mai sentito parlare di Bruce Springsteen (cioè se siete rimasti rinchiusi per quattro decenni in qualche oscuro lazzaretto) questo libro non lo comprerete proprio.
Il che non vuol dire che Springsteen non avrebbe dovuto scriverlo - se non altro come lettera d' amore per le sue legioni: tutti i fan di Springsteen leggeranno questo libro. Anche se va aggiunto che il pubblico di riferimento di Born to Run probabilmente siamo noi che stiamo nel mezzo, quelli per cui Independence Day, Wild Billy' s Circus Story, Bobby Jean, Nebraska, Streets of Philadelphia, Hungry Heart e Born in the U. S. A. sono state la musica sentimentale di sottofondo - e per alcuni di "soprafondo" - di una vita intera, ma che non abbiamo ancora dedicato l' intera vita a Bruce.
E ci sentiremo meglio quando scopriremo che il Boss non sa leggere molto bene le note, che Born in the U. S. A. e Nebraska sono state registrate nello stesso momento, che Springsteen ha una figlia campionessa di equitazione, che è stato in terapia per anni, che è in grado di perdonare chi gli ha fatto un torto, che concepisce il suo lavoro come un «servizio» reso ad altri che sono come lui e che possiede un senso d
ell' umorismo duttile, capace di prendersi in giro (almeno quando è dell' umore giusto).
Aiuta il fatto che Springsteen sa scrivere - non soltanto versi di canzoni che ti rimangono impressi a vita, ha anche una prosa solida e valida, che si fa leggere agevolmente dalla prima all' ultima riga. Voglio dire, uno immaginerebbe che un tizio capace di scrivere " Spanish Johnny drove in from the underworld last night / With bruised arms and broken rhythm and a beat- up old Buick..." ("Spanish Johnny arrivò dai bassifondi la notte scorsa / con lividi sulle braccia, un' andatura traballante e una vecchia Buick tutta ammaccata") sia poi in grado di tirar fuori una frase completa e decente in lingua americana. E immaginerebbe giusto. Certo, qua e là si trova anche qualche frammento un po' verboso, una minchiatina da lettino dello psicanalista a proposito della «terra dentro la mia testa».
C' è una spruzzata di ampollosità rock 'n' roll un po' eccessiva per miei i gusti, anche se i fanatici di Bruce giù a Sea-Clift non saranno d' accordo con me, neanche un po'. Ma non c' è nulla che suoni non intenzionale in Born to Run, nulla che lasci pensare che non abbia voluto affondare il colpo.
Al contrario, Springsteen vuole che gli sia riconosciuto il merito di dire le cose come sono e com' erano. E al pari di uno dei suoi leggendari concerti (sempre straordinari nella loro minuziosa esaustività), Born to Run lascia la sensazione che tutte le domande importanti abbiano avuto risposta quando cala il sipario.
Ci propone la storia di Bruce - in capitoli di digeribile brevità - con un disadorno linguaggio jerseyano di tenacia informale, lavorato, abilmente particolareggiato, intimo coi suoi lettori, lucido a sufficienza per dire quello che vuole dire quando ha storie difficili da raccontare, ma flessibile a sufficienza da innalzarsi in quelle occasioni che richiedono eloquenza, a volte sprofondando piacevolmente nella sintassi e nei ritmi di una delle sue canzoni: «Così tutti noi ci adattammo », scrive parlando di quando i suoi genitori, nel 1969, lasciarono improvvisamente Freehold per la California, senza portarlo con loro.
«Mia sorella svanì nelle profondità di "Vaccopoli" - l' entroterra del Sud del New Jersey - e io fingevo che nulla di tutto questo avesse veramente importanza. Dovevi cavartela da solo - ora e per sempre.
Questo chiudeva la faccenda. E poi una parte di me era sinceramente contenta per loro, per mio padre. Scappa, papà! Scappa da questa topaia di...!».
Le parti che mi hanno colpito di più in Born to Run sono quelle in cui parla della famiglia: sono le parti che danno peso all' affermazione di Springsteen secondo cui gli spettatori, quando vedono lui, vedono se stessi.
Come spesso ci facciamo un' idea sbagliata del processo di creazione dell' arte, così spesso non siamo in grado di dire con certezza da dove venga. Forse, se ne fossimo in grado, smetterebbe di interessarci. E non c' è nulla qui che sveli fino in fondo il mistero di come si arriva da Freehold nel 1964, strimpellando una chitarra Kent da 69 dollari, al Metlife Stadium con una Telecaster di fronte a una folla immensa.
BRUCE SPRINGSTEEN AL BOLOGNESE
Ma un posto da cui può venire l' arte è una vita piena di forze-difficili-da-incastrare- insieme, una vita che trova nell' arte uno strumento provvidenziale per riconciliare i tasselli frastagliati. La famiglia di Springsteen, in parte scozzese-irlandese, in parte italiana, era un calderone di queste forze spumeggianti.
Un padre che rimuginava in silenzio, fallito, ostile, misantropo («Mi amava ma non mi poteva sopportare »), una madre enormemente amorevole ma fedele in primo luogo al marito infelice. E poi, una famiglia reticolare, estesa, occasionalmente volubile ma devota, di discendenti di immigrati - nonni, zie, zii, sorelle, un cognato imbrillantinato - alcuni dei quali, ci dice, con gravi malattie mentali, «una malinconia cupa» che lui stesso ha ereditato. Tutti questi individui erano accampati in un decadente quartiere postindustriale di case povere, in affitto, senza acqua calda, una «cittadina insignificante» in quella parte sperduta del New Jersey a cui nessuno ha mai pensato finché non ha sentito le parole Bruce e Springsteen in questo ordine.
al Circo Massimo per Springsteen
Qualcuno potrebbe dire naturalmente, e di nuovo avrebbe ragione, che non è nulla di particolarmente distante da tantissime vite. La mia. La vostra. La «merdosissima città natale che amavo». Ma qui si nasconde quantomeno un accenno della magia del mistero di Springsteen: la muscolarità nello sfruttare la più piccola delle occasioni, la capacità di imporre il proprio dominio su circostanze limitanti e di valutare la propria reattività davanti a qualcosa che altrimenti sarebbe sembrato inevitabile.
«Coloro da cui vorremmo essere amati ma non ci riusciamo», scrive Springsteen in un passaggio memorabile, «li emuliamo. È pericoloso, ma ci fa sentire più vicini a loro, ci dà l' illusione dell' intimità che non abbiamo mai avuto. Rivendica ciò che ci spettava di diritto ma ci è stato negato.
Quando avevo vent' anni, e la mia canzone e la mia storia cominciavano a prendere forma, ho cercato la voce da mescolare alla mia per narrare. È un momento in cui, grazie alla creatività, puoi rielaborare, reimpossessarti, far rinascere le voci contrastanti della tua infanzia, trasformarle in qualcosa di vivo, di potente, che cerca la luce. Io sono un aggiustatore. Fa parte del mio lavoro. Io, che non ho mai fatto una settimana di lavoro manuale in vita mia, ho indossato gli abiti di un operaio, gli abiti di mio padre, e mi sono rimboccato le maniche».
Seamus Heaney scrisse una volta, in una poesia, che lo scopo dell' arte è la pace. Ma penso che sarebbe stato disposto a condividere il palco con Springsteen, e ad ammettere che a volte lo scopo dell' arte è anche un maledettissimo rumore grande e sublime, un suono che vorresti non finisse mai.
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