NE VEDREMO DELLE BELLE: VOLANO GIÀ GLI STRACCI TRA I TECNO-PAPERONI CONVERTITI AL TRUMPISMO – ELON…
Filippo Ceccarelli per la Repubblica
È già difficile guadagnarsi il titolo di Maestro, ma nel caso del giornalismo, entità quant' altre mai opinabile e relativa, è quasi impossibile. Sennonché, per qualche misteriosa legge dei simili si può pensare - forse! - che solo un giornalista tanto più appassionato quanto più scettico potrebbe meritarsi tale dignità. Ebbene: a sentirselo tributare, per prima cosa si sarebbe acceso una sigaretta, in silenzio. Fumava sempre, infatti, e non solo a getto continuo, ma con mite allegria qualche anno fa aveva addirittura pubblicato per i libri del Manifesto una guida, Segnali di fumo appunto, sui locali di Roma e Milano in cui era ancora consentito spipacchiare in libertà.
Quindi, aggiustandosi gli occhiali sulla fronte, da dietro la sua monumentale Olivetti 98, Valentino Parlato, Maestro di Giornalismo con doppia maiuscola, avrebbe probabilmente accolto l' onore con un sorriso dei suoi, tipici di chi considera un dovere morale non prendersi mai troppo sul serio.
Ieri se n' è andato, a 86 anni, fra gli ultimi della vecchia guardia del manifesto, "quotidiano comunista". Il 9 aprile scorso, nel suo estremo articolo, ancora una volta aveva scritto che bisognava sforzarsi di capire questo tempo: «Sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà». Domenica aveva votato alle primarie del Pd.
Ma nel novero delle sue numerose virtù si fatica a collocare Parlato nell' ambito dell' impegno politico o dell' ideologia. O meglio. Più che come coscienza critica della sinistra o eretico del comunismo vale oggi ricordarlo per le sorprendenti argomentazioni, il dono magico della sintesi e le risorse del secco periodare, il ritmo e la chiarezza del linguaggio, la cultura mai esibita e il guizzo fantastico che spesso faceva dei titoli di prima pagina piccoli, grandi capolavori di spirito polemico, elegante sarcasmo e perfino poesia.
Si può aggiungere un' inguaribile curiosità, anche a livello umano, e quel tratto di garbato distacco dalle mode che riportano più alla persona che al mestiere. Ma in lui l' intreccio appariva in realtà indissolubile: nei commenti calibrati, nella memoria, nei ricordi dispensati dietro il tavolo di qualche convegno come nelle chiacchiere davanti al bancone del Caffè delle Antille, al di là di via Tomacelli, la prima e indimenticata sede del quotidiano.
Una «bella e lunga vita», parole sue, «una storia difficile e faticosa». Valentino era nato in Libia, da genitori siciliani, e laggiù, nell' adolescenza, aveva aperto lo sguardo, generosamente, sulla miseria e le ingiustizie del colonialismo. Fino a farsi comunista e a lottare per l' indipendenza di quella gente; fino a quando, appena ventenne, nel 1951, l' amministrazione britannica non lo aveva caricato a forza su una nave e rispedito in Italia. Qui, come pure succedeva, fu "adottato" dal Pci, debitamente istruito e indirizzato verso studi economici.
Per un po' lavorò in Puglia con Alfredo Reichlin; quindi a Botteghe Oscure, nella Sezione Economia, allora dominata dalla tonitruante figura di "Giorgione" Amendola, forse l' unico esponente del Pci, antenato della futura destra migliorista, capace di seminare dubbi e polemiche nel campo avversario.
Per sua natura indipendente, e anzi a suo modo incline agli ossimori, in tarda età si riconobbe nella definizione (datagli da Paolo Franchi) di "amendoliano di sinistra". Ma l' ardua collocazione non dispensò il giovane Valentino dall' aderire alla corrente o frazione di sinistra che, inizialmente con l' avallo di Ingrao, diede vita al Manifesto- rivista; né poi, nel 1969, si salvò dal conseguente repulisti che lo costrinse ad abbandonare la redazione di Rinascita - «anche se - ricordava in lieta serenità - mi diedero anche la liquidazione ».
Dopo di che, insieme con Pintor, Rossanda e Castellina, divenne uno dei motori del nuovo, austero, elegante, elitario e "solitario", come preferiva lui, quotidiano. Inutile dire che furono anni di straordinaria intensità, non solo professionale.
Idee, articoli, amori, rivalità professionali, scontri generazionali, infinite discussioni, ma pure inusitati, apparentemente, pellegrinaggi in redazione, da Jane Fonda a Ciriaco De Mita.
Molti in effetti apprezzavano la libertà di giudizio di quelle pagine quasi sempre estranee ai giochi del potere e alle scorribande della finanza, animate com' erano da una passione insieme infuocata e rarefatta. Ma c' è da dire che pochi altri giornalisti, per giunta tra quanti si ostinavano a dirsi comunisti, riuscirono come Parlato a ottenere la stima e in certi casi l' amicizia di figure assai diverse fra loro e comunque ben lontane dal mondo e dai precetti del Manifesto: Cesare Romiti, il cardinal Silvestrini, Guido Rossi, Enrico Cuccia, Cesare Geronzi, senza dimenticare il Colonnello Gheddafi che, da nativo libico, Valentino sempre volle considerare - e ha fatto in tempo ad aver ragione - una soluzione di necessaria stabilità.
Inutile anche ricordare che dalla seconda metà degli anni 80 la vita del Manifesto, modello pressoché unico di giornale senza padrone e/o padroni, cominciò a farsi difficile, ma che poi continuamente, disperatamente, tra una sottoscrizione e l' altra, entrò in gioco la sua stessa sopravvivenza.
E qui Valentino, per l' assenza di pregiudizi vissuto come una sorta di ambasciatore in partibus infidelium, dovette dare fondo ai suoi rapporti, da Grauso a Tanzi, da Craxi a Capitalia. In buona sostanza si trattava di prestiti, fideiussioni, finanziamenti e altre trovate finanziarie; quanto insomma era indispensabile per scongiurare la chiusura definitiva di un' esperienza che aveva occupato l' intera sua vita e per la quale, sempre con quella grazia intelligente e quell' onesta simpatia che tutti gli riconoscevano, non esitò a spendersi nelle forme più discrete e laboriose, senza che mai facesse capolino un qualche tornaconto, meno che meno di natura personale.
Perché tanti sono i modi di essere maestri, ma al dunque i migliori sono sempre quelli che pensano agli altri.
La camera ardente sarà allestita a Roma nella Protomoteca del Campidoglio alle ore 15. Mentre la cerimonia funebre si svolgerà alle 18
2. ROSSANA ROSSANDA
Simonetta Fiori per la Repubblica
«Ci saremmo dovuti vedere da me a Parigi giovedì. È stato un attacco improvviso, fulminante». Rossana Rossanda ricorda l' amico Valentino. Procede a fatica, ha appena terminato di scrivere un articolo per il Manifesto ed è molto stanca. Però si sforza, mossa da quella forza che solo i sentimenti possono dare.
Quando vi siete sentiti l' ultima volta?
«La settimana scorsa. Abbiamo commentato i risultati dell' elezione francese. Ma con Valentino non si parlava solo dei destini del mondo».
Parlavate anche di voi.
«Sì, si preoccupava per me. Anche nell' ultima telefonata mi ha chiesto se mi occorressero dei libri o altre cose».
L' umore com' era?
«Non buono. Era malandato. Non si sentiva più di scrivere, di partecipare alla vita politica. E questo lo rendeva infelice».
Però domenica ha votato alle primarie del Pd.
«Non lo sapevo. Spero non abbia votato Renzi, che io detesto ».
Da quanti anni vi conoscevate?
«Dal 1966, da più di cinquant' anni. Io ero responsabile della commissione Cultura dentro il Pci, Valentino lavorava a Rinascita e faceva parte della commissione economica».
Tre anni dopo avete dato vita al "Manifesto". E nel novembre di quello stesso anno foste tutti espulsi dal Partito.
«Sì, ma con le buone maniere. Nessuno gridò al "traditore" o al "serpente viscido"».
Ricorda Valentino in quei frangenti?
«No, ero troppo concentrata sul mio malumore».
Quando rievocava la storia del "Manifesto", Parlato si distingueva per umiltà. Diceva di essere «il più modesto», quasi «una figura di secondo piano».
«No, la verità è che era molto più generoso di noi. Io sono dura e cattiva, Valentino buono e ben disposto».
Lui diceva che intellettualmente era lei la più attrezzata.
«Non si può dire questo. Nel campo della cultura economica ne sapeva molto più di noi. Era amico di Federico Caffè. E quando usciva la relazione annuale della Banca d' Italia era lui a spiegarci le cose. Io forse ero più versata nelle scienze umanistiche mentre Luigi Pintor era un giornalista magnifico, l' eccellenza ».
Con Lucio Magri non si prendevano molto. Una volta la spiegò così: «Lucio era raziocinante e incline alla teoria, io un arrangista fatalista. Due modi diversi di stare al mondo».
«Arrangista? Forse perché cercava di andare d' accordo con personalità complesse, un compito non facile. Fatalista perché preferiva evitare gli scontri cruenti. Su Valentino si poteva sempre contare».
Si fece carico della direzione del "Manifesto" in vari passaggi.
«E io lo affiancai in momenti diversi. Più che un giornale eravamo un gruppo di amici legato da passioni grandi. E questo è stato anche il nostro limite».
Perché un limite?
«Perché per durare nel tempo si ha bisogno di una struttura organizzata e gerarchizzata. Mi ricordo una volta che Luigi provò a mandare una lettera con una specie di ordine di servizio: bisognava stare al giornale entro una certa ora, etc etc. La redazione organizzò una manifestazione di protesta. Era nel clima di quegli anni, al principio dei Settanta: non erano ammesse le regole. Ma un giornale così non funziona facilmente».
Qual è stato il ruolo di Parlato nella storia del "Manifesto"?
«Fondamentale. Si è sempre occupato della gestione economica. È stato quello che ci ha salvato quando incombeva la minaccia della chiusura. Valentino è riuscito sempre a cavarsela ».
Com' erano i suoi rapporti con Pintor dentro il giornale?
«Personalità diverse, ma in sintonia. Erano entrambi convinti che prima di scrivere un articolo occorresse avere in mente un titolo. Poi l' articolo sarebbe venuto da sé. Io non ero d' accordo. E non mi sognavo di anteporre il titolo all' articolo».
Anche Pintor non aveva un carattere facile.
«Sì, Luigi e io eravamo più spigolosi. Anche nel rapporto con i collaboratori. Quando Umberto Eco cominciò a scrivere per noi, Luigi ne era come infastidito e lo mise nelle condizioni di andarsene. Valentino non l' avrebbe mai mandato via».
Un tratto che vi accomunava - ha scritto Parlato - era l' antidogmatismo. Lo stesso che vi infondeva «non solo il coraggio ma anche il gusto di dire no».
«Venendo tutti dal Pci, non poteva essere diversamente. E comunque fare per tanti anni un giornale quotidiano, senza una lira, senza un editore e senza un partito alle spalle, è stata un' impresa pazzesca. E questo ci ha resi compagni di vita, oltre che di lavoro».
Lui si è sempre ritratto come uno scettico.
«Ma era un modo di apparire più che di essere. Sicuramente era molto ironico. Ma un gruppo di scettici non avrebbe mai vissuto la nostra esperienza».
Non si perdonava il suicidio di Magri. Aveva l' impressione di non aver fatto abbastanza per dissuaderlo.
«Io ho voluto aiutare Lucio accompagnandolo in Svizzera. Con Valentino non ne ho mai parlato. È una mia mancanza. Ma sono cose di cui è difficile parlare».
Vi sentivate spesso?
«Quasi tutti i giorni. Lui pensava che io fossi troppo rigida, nel giudizio sulle persone. Lui era molto più benevolo, generoso. Mi mancherà molto».
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