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CHARLES BUKOWSKI UN SECOLO DOPO. GRANDE POETA, SBRONZO E ILLUMINATO
Emanuele Trevi per www.corriere.it
Il centenario di Charles Bukowski, nato il 16 agosto 1920, è destinato a suscitare molte memorie e nostalgie soprattutto, c’è da credere, tra chi lo leggeva da ragazzino, nei facinorosi e visionari anni Settanta.
Soprattutto in Europa, perché il culto nacque in Germania, in Francia e qui da noi, dove Feltrinelli pubblicò, tra 1975 e 1980, i tre libri fondamentali: Storie di ordinaria follia, Compagno di sbronze e Taccuino di un vecchio porco.
Questa precoce fortuna europea è stata il destino di tanti grandi artisti americani del secondo Novecento, molto meno conosciuti in patria, almeno all’inizio, che nel vecchio continente: basti pensare al caso proverbiale di Woody Allen e a quello di Philip Dick.
È pur vero che Bukowski, figlio di un militare americano e di una madre tedesca, era nato in Germania, ad Andernach, dove la casa, ancora in piedi, è meta di pellegrinaggi. Ma presto la famiglia si trasferì a Baltimora, e Bukowski vide la città natale solo nel 1978, ormai all’apice della sua fama, durante una trionfale tournée.
Più che sui romanzi, il culto si fondava sui racconti, e soprattutto sul legame poeticamente vitale tra la forma breve e la narrazione in prima persona. Avevamo l’impressione di ascoltare un amico, molto saggio e molto inguaiato, in proporzioni variabili.
Il sesso e l’alcol facevano la loro parte, come accadeva per molte star del rock, ma sono elementi esteriori di una grandezza che, per durare nel tempo come ha fatto, doveva appartenere all’artista, e non al «personaggio».
Rileggendoli oggi, quei racconti spassosi rivelano virtù propriamente letterarie di grandissima raffinatezza: il senso del dettaglio significativo, la saggia economia dei mezzi, l’epigramma memorabile (si possono costruire interi libri fatti soltanto di citazioni di Bukowski).
Ma, su tutto, prevale un senso dell’umano di straordinaria intensità e credibilità psicologica: quello del «vecchio porco» è un disincanto privo di cinismo, un realismo ironico scaturito da una capacità illimitata di empatia e compassione. Ne viene fuori un’immagine del mondo che è diversissima da quella prevalente nella cultura beat, che Bukowski deride in continuazione per la tendenza dei suoi rappresentanti a erigersi a maestri di saggezza e a esagerare il significato dell’esperienza.
«Io vado a birra», afferma con orgoglio Bukowski mentre nella sua California tutti attingono le verità supreme con l’Lsd. Meglio sbronzo che illuminato, e aveva ragione lui, perché l’uomo è un animale comico, un coagulo di desideri e secrezioni, e l’artista non è un sacerdote, ma colui che scandalizza i sacerdoti. Quello che colpiva i primi lettori di Bukowski, figli di un secolo di filosofie e appartenenze vincolanti, era la libertà di non assomigliare a nessuno: nemmeno all’amato Hemingway.
Questo non significa, oggi che conosciamo molto di più dell’uomo e dell’opera, che non si possano accennare delle possibili genealogie. Una è interessante, ed è una storia di furti. Bukowski adorava John Fante, tanto da vegliarlo al capezzale quando era in ospedale, malato di diabete, e ormai cieco dettava alla moglie l’ultimo libro, Sogni di Bunker Hill. Ha anche scritto delle splendide poesie sul maestro morente. Ebbene, aveva scoperto Fante rubando da una biblioteca pubblica una copia di Chiedi alla polvere: una di quelle letture fatali che rivelano un giovane a sé stesso. Ma Fante, più vecchio di una decina di anni, racconta un episodio simile.
Anche lui, quando era ancora alla ricerca di un suo stile, aveva saccheggiato una biblioteca pubblica, portandosi via una copia di Fame di Knut Hamsun, che gli aveva cambiato la vita.
Mettiamo in fila il capolavoro del vagabondo norvegese, che venne pubblicato nel 1890, Chiedi alla polvere, che è del 1939, e il Taccuino di un vecchio porco (1969). Sono libri sapientissimi, ma che sembrano essersi scritti da soli, con la penna intinta direttamente nel calamaio della vita.
Non avendo nulla da insegnare a nessuno, sono purissime espressioni dell’arte più difficile da apprendere, che è quella di stare al mondo, di capire chi abbiamo di fronte e chi abbiamo dentro di noi, di spremere tutto il succo possibile dai propri errori, perché il cammino della vita è lastricato di errori.
L’uomo che il mondo definisce un fallito spesso è un uomo capace del bene più prezioso, che è quello di illudersi. Non importa nemmeno di che cosa. In una delle poesie che scriveva negli ultimi anni, Bukowski racconta che, tornato dall’ippodromo a notte fonda, prende la bottiglia dall’armadio della cucina e si chiede: che cosa c’è da festeggiare? Forse solo un altro giorno senza essersi suicidato. «Questo/ o/ qualunque altra cosa ci sia,/ non ci sia,/ ci sarà,/ non ci/ sarà- /esattamente come adesso». Non c’è cosa che non valga un brindisi.
Il libro
«È bello rivederti, zio Heinrich!». Charles Bukowski, nel viaggio in Europa del 1978, incontra un vecchio zio ad Andernach, la cittadina tedesca dov’era nato il 16 agosto 1920. Lo si legge nel diario Shakespeare non l’ha mai fatto, ora edito da Feltrinelli con le foto di Michael Montfort e tradotto da Simona Viciani (pp. 167, euro 24). Gran parte della sua opera, tuttavia, è pubblicata da Guanda.
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