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Marco Giusti per Dagospia
Cesare deve morire, ma prima ci prova a vincere l'Oscar. Alla fine è stata fatta la scelta più ovvia, ma anche quella più saggia. "Cesare deve morire" dei Taviani Brothers, 350.00 euro di budget, cast di attori carcerati, tutto girato in digitale, distribuzione attenta di Nanni Moretti, Orso d'Oro a Berlino, David di Donatello come Miglior Film, si merita in pieno di rappresentare l'Italia agli Oscar.
Intanto perché Shakespeare è universale, e lo capiscono anche gli americani, che nulla sanno del caso Englaro, della Diaz, dei napoletani che vogliono andare ai reality, dei quarantenni depressi romani. Poi perché, come diceva Orson Welles, "gli italiani sono tutti attori, i peggiori sono quelli che vedi sullo schermo", e infatti il cast di detenuti attori del carcere di Rebibbia, tutti volti inediti e mai visti, ha una forza incredibile.
Non recitano, rivivono sul proprio corpo le sofferenze e i sentimenti dei personaggi shakespeariani. Per una volta ti rifai gli occhi, davanti a un nostro film, non vedendo gli attori che ripetono se stessi per la ventesima volta, con le stesse faccette, gli stessi movimenti.
Terzo perché i Taviani, classe 1929 e 1931, due ragazzini, hanno vinto, nella loro carriera, solo una Palma d'Oro, nel 1977 con "Padre padrone", e l'Orso d'Oro quest'anno con Cesare. Troppo toscani, troppo comunisti. Si meritano questo viaggio a Hollywood e si meriterebbero anche di vincerlo l'Oscar.
Quarto perché dietro a questo film non c'è il duopolio Rai-Medusa, non ci sono grossi produttori e distributori. C'è solo Nanni Moretti, l'unico che abbia creduto all'operazione e che abbia davvero aiutati i Taviani, suoi vecchi maestri (Moretti fu attore in "Padre padrone"), a portare a casa un film diverso, povero, forte e sentito.
Lo disse pure in conferenza stampa a Roma: "E poi non dite che è la vittoria del cinema italiano, è la vittoria dei Taviani e di questo film!". E poi perché è un film che, per una volta, non ci dice quanto siamo depressi, tristi, sfigati, sfiniti da Berlusconi e Bersani, dalla Polverini e da Fiorito, che si sarebbe magnato tutto il budget con una cena e forse rischia di finirci anche lui a Rebibbia.
Un film dove scopriamo che tutta la virilità del nostro paese, quasi la nostra parte più sana e più vera, è come racchiusa dentro il carcere, dentro volti e corpi che non siamo più abituati a vedere. Pronta a esplodere grazie a Shakespeare e a due vecchi signori che hanno fatto cinema per tutta la vita. E ci hanno creduto.
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