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Estratti dall'intervista di Pierluigi Diaco a Renato Zero per ''Oggi''
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Un disco che somiglia ad una meravigliosa e sincera autoanalisi collettiva. Dove lo sguardo è rivolto soprattutto al passato, al tempo che c’è stato e che non ritornerà, agli anni dell’infanzia dove, e questo vale soprattutto per Renato, avere un padre poliziotto (Domenico Fiacchini) e una madre infermiera (Ada Pica) gli ha garantito di scoprire da subito due valori indispensabili per vivere: il valore dello stato e quello del dovere. “Ma aggiungerei anche il valore della sopravvivenza” mi confida Renato, mentre sfoglia con me i testi delle sue nuove canzoni.
In che senso?
“Subito dopo essere venuto al mondo rischiai di morire a causa di una incompatibilità materno-fetale del fattore Rh, tanto che necessitai di una trasfusione totale. Non fu una nascita gioiosa. Già sentivo di aver ricevuto una concessione, un regalo, una possibilità. E di conseguenza ho passato tutta la mia vita tentando di meritarmi questo privilegio: quello di tornare sempre alla vita, in vita. Io sono grato all’esistenza e nelle mie canzoni ho sempre cercato di raccontare questa gratitudine”.
E ti sei fatto da subito portavoce delle minoranze…
“Portavoce e portabandiera di una minoranza maltrattata e non compresa. Lo sono diventato perché io stesso mi sono sempre sentito sempre molto precario e molto a rischio. Il senso della mia professione è tutto qua”.
Qual è il ricordo più nitido che hai degli anni della tua adolescenza, quando vivevi in un casermone destinato ai dipendenti della pubblica sicurezza alla Montagnola?
“L’impatto con la periferia è stato importantissimo. Ricordo di aver imparato da subito il significato delle parole insofferenza, disagio e rabbia. I primi undici anni della mia vita, però, furono diversi: andavo a scuola dalle suore a pochi passi da Piazza del Popolo e lì il contesto era decisamente diverso. C’erano i ‘figli di’ e i ragazzi della cosiddetta “Roma Bene”. Il passaggio alla Montagnola e l’infanzia a Via Ripetta sono stati utilissimi per capire l’alto e il basso della società, le sue contraddizioni, i suoi equivoci e le sue differenze”.
In “Chiedi”, il singolo primo estratto dal tuo nuovo album, suggerisci agli italiani di riappropriarsi dei propri diritti…
“E’ un invito sentito e accorato a tornare a dubitare, a farsi delle domande ed esigere risposte. I partiti e i sindacati si sono dimostrati delle associazioni che hanno sempre rallentato, se non addirittura vanificato, la crescita e il miglioramento di certe classi sociali. Si fa un gran parlare, ma chi ci governa non ha mai soddisfatto le richieste della povera gente, di un’Italia che vive sottotono, con un profilo estremamente precario”.
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Nel brano “Gli anni miei raccontano” sostieni che nemmeno la morte può vincere su di noi.
“Ed è così. A me la vitalità è spesso andata via, ma è sempre ritornata grazie al commiato fatto a tanti amici e tante persone care. Quando vanno via le persone che ami, si accresce dentro di te la volontà di continuare a vivere anche per loro. Io ho sempre detto alla morte: “Cara stronza, con me non attacchi: avendomi tolto queste persone care, mi hai conferito più sicurezza in me stesso, maggiore fiducia nel futuro ma soprattutto maggiore responsabilità nell’andare a colmare i vuoti dell’assenza”.
Mi stai dicendo una cosa molto profonda sul piano teologico. Che la morte è la resurrezione dei vivi.
“Sì, è proprio così. In qualche modo, se non si muore, non si rinasce. La morte non è mai definitiva” .
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