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Marco Giusti per Dagospia
La maternità , l'incapacità di procreare e la crisi di essere madri sembrano quasi temi ossessivi del nostro ultimo cinema. Soprattutto di quello al femminile. Come se la profonda crisi della società italiana, più o meno cattolica, fosse legata alla crisi delle fondamenta stessa della famiglia. Il non riuscire a procreare o il rifiuto dell'essere madri dichiara platealmente la sterilità , anche culturale, di un paese profondamente segnato dalle proprie paure e contraddizioni.
Mentre l'unica forza vitale che ci arriva dall'esterno, dal carico di anime in viaggio verso il nostro paese, è proprio quella di un eccesso di procreazione e di maternità . Gran parte degli 83 minuti dell'opera prima di Alina Marazzi, "Tutto parla di te", che ha vinto il premio Tao Due al recente Festival di Roma, sono dedicati a ritrovare il concetto perduto di maternità , a accettarsi nella pienezza di essere madri e ancora se stessi. E nel superare la crisi, profondamente occidentale, della paura della maternità che ci condanna a un futuro di sterilità .
Pauline, una sempre grande Charlotte Rampling, etologa che torna a Torino pronta a lavorare in un centro per la maternità , rivede negli occhi della giovane Emma, Elena Radonicich, bravissima, neo mamma in crisi, turbata dall'arrivo del figlio, altre paure e altre angosce che le hanno segnato per sempre la vita. Accostandosi alla disperazione di Emma riuscirà magari a superare anche le ombre che la accompagnano.
Costruito con grande uso di repertorio in bianco e nero in 8 mm e con vere interviste a gruppi di madri, che ci riportano al grande lavoro fatto dalla Marazzi nei suoi due primi documentari che l'hanno lanciata, "Un'ora sola ti vorrei" e "Vogliamo anche le rose", questo suo primo film a soggetto ha quasi paura a staccarsi da un territorio conosciuto, quella del film di montaggio di repertori diversi, tanto che a lungo si sofferma sulla tecnica mista, come se l'arrivo alla finzione fosse quasi un parto sofferente.
E anche quando arriva, tardissimo, al racconto, è come se lo rigettasse costruendosi altre trovate di non fiction, come la bella scena animata a passo uno da Beatrice Pucci della famiglia felice costruite con le bambole. Questo potrà creare un po' di sconcerto fra gli spettatori, abituati ormai alla fiction televisiva fin troppo esplicita, ma diventa quasi una trama parallela per un film che è così profondamente dedicato alla difficoltà di accettare la propria creatività in maniera laica e cosciente. Non per tutti gusti. Ovvio. In sala dall'11 aprile.
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