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Marco Giusti per Dagospia
La chiave sta nella prima scena. In una grande scena bianchissima e scarna, davanti a un Luigi Pirandello sul letto di morte, ricostruito dalla voce piena di storia di Roberto Herlitzka, si fanno avanti i tre figli, ad ogni passo sempre più grandi, fino ad apparir vecchi.
“Leonora, addio”, con grande titolo mediato da “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi (quanto ci manca oggi Verdi, anzi quanto ci mancano i Bertolucci e i bene che citano Verdi…), ultimo film di Paolo Taviani, e primo che non firma col fratello Vittorio, scomparso nel 2018, unico film italiano in concorso a Berlino, non è solo un film sulla morte del fratello, con tanta di dedica iniziale, e sulla ineluttabilità della morte.
E’ un profondo e commovente viaggio nel ’900 italiano della nostra letteratura e del nostro cinema neorealista (Rossellini, Vergano, Lizzani), con radici profonde nel secolo precedente (Verdi), non certo alla ricerca di una metafora che dia un senso alla nostra vita, ma magari solo di un chiodo, di un’urna con le ceneri di un poeta che la racchiuda per sempre e al tempo stesso apra un percorso di ricordi e di memorie che sono la nostra storia.
Complessa costruzione sulla elaborazione di un lutto profondo compiuta da un regista di ormai 91 anni che per tutta la vita ha diviso la scena col fratello maggiore in maniera così chiusa da diventare un solo artista,
I Taviani, “Leonora, addio” parte dal vero repertorio della consegna del Nobel nel 1936 a Luigi Pirandello, per mettere in scena la sua morte due anni dopo, e la folle avventura delle sue ceneri in viaggio per l’Italia. Ferme per dieci anni dietro un muro di mattoni a Roma, vengono liberate ormai a guerra e fascismo finiti, e si decide di trasportale, seguendo le ultime volontà dello scrittore, a Agrigento, dove era nato.
Un viaggio faticoso, che vede Fabrizio Ferracane viaggiare con l’urna chiusa in una cassa prima in aereo, poi in treno nell’Italia ancora martoriata dalla guerra. Ma al film non finisce qui, con questo bellissimo e già conclusivo episodio in bianco e nero.
Da una parte delle ceneri gettate in mare, Paolo Taviani passa al colore per una specie di secondo episodio, ma quasi un extra, una storia in più del vecchio “Kaos”, che i Taviani girarono ormai più di trent’anni fa.
Si tratta de “Il chiodo”, ultimo misterioso racconto pubblicato da Pirandello, ambientato tra la Sicilia e l’America, dove il piccolo Bastianeddu, sradicato dalla sua terra dal padre e portato al di là dell’oceano, compie un delitto assurdo con un chiodo caduto da un carretto.
Un chiodo caduto apposta, “on purpose” continua a ripetere. Un chiodo che lo unirà per sempre a chi ha ucciso. Alla morte. E’ evidente che Paolo Taviani cerchi così di chiudere, “dalla bara al chiodo” leggo su Indiewire, una storia che inizia dalle ceneri per arrivare alla memoria, ma che vive soprattutto per la messa in scena, la narrazione, il percorso.
Al punto che i repertori che sceglie sono soprattutto film, degli stessi Taviani o dei grandi maestri del Neorealismo, e anche l’incredibile sequenza del processo al Questore di Roma Caruso e della sua fucilazione, ripreso da “Giorni di gloria”, è firmato dai registi militanti Visconti-De Santis-Pagliero-Serandrei. Come se cinema e storia facessero ormai parti di un’unica realtà vissuta. Una realtà dove tutto accade inevitabilmente, on purpose. Il film uscirà domani in Italia, e, sempre domani, Paolo Taviani interverrà alla proiezione serale al Nuovo Sacher di Roma.
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