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Marco Giusti per Dagospia
Lo sapevamo da subito che Cate Blanchett come direttrice d’orchestra in “Tar”, dopo aver stravinto la Coppa Volpi a Venezia e una marea d’altri premi, non ultimo il Critics Choice Award assieme alla musicista del film, la fenomenale Hildur Guðnadóttir, sarebbe stata la candidata ideale per la corsa agli Oscar. Anche se è possibile che delle nove nomination che ha il film, non si traduca in Oscar solo quella per la miglior attrice protagonista.
Del resto il film, scritto e diretto da Todd Field, attore e regista di due opere molto quotate, “In the Bedroom” e “Little Cbildren”, ma che da 16 anni non riusciva a chiudere un film, inseguendo grandi progetti legati a romanzi celebri e difficili se non impossibili da trattare al cinema (da “Purity” di Franzen e “Meridiano di sangue” di McCarthy), è totalmente costruito per la strepitosa performance della sua protagonista, che il regista ha inseguito e voluto come unica in grado di chiudere perfettamente il progetto.
Si parte con un grande ritratto sul mondo della musica classica e sul rapporto tra musicisti di oggi e classici del passato per poi piano piano scivolare su un terreno più accidentato e non certo semplice. Quello dell’abuso del potere che esercita la protagonista, la potente Lydia Tar, lesbica e predatrice, sulle sue giovani allieve e collaboratrici. Un abuso e un comportamento sprezzante verso chi le sta vicino, la compagna Sharon di Nina Hoss, l’assistente Francesca di Noèmie Mérlant, che la faranno cadere dal podio che con fatica aveva scalato in un mondo esclusivamente maschile. Se “Il potere del cane” di Jane Campion apriva il velo sull’aggressività dei maschi gay, “Tar” si muove nella stessa direzione sull’aggressività e l’idea di dominio delle donne gay.
Film inconcepibile fino a una decina d’anni fa, anche perché il mondo della musica classica era visto come biopic agiografico o scontro tra professionisti sgomitanti, affronta invece temi che devono invece essere attuali tra i giovani compositori, anche se ci fa un po’ ridere il ragazzo della Juillard che giustifica con l’essere non binario il suo odio per Bach, per il suo maschilismo e le sue rapacità sessuali. Ma sarà proprio il ragazzo a riconoscere la stessa rapacità nel celebre maestro Tar urlandone che è “una fottuta stronza” rivelandoci la chiave del film.
Visto che noi pubblico siamo affascinati, come molti dei personaggi del film, dalla forza del carattere di Cate Blanchett/Tar, è ovvio che non sarà facile seguire questo spostamento di attenzione. Ma che oltre a musicista geniale sia anche una fottuta stronza incomincia a essere chiaro col suo ritorno a Berlino, col massacro continua della sua compagna e della sua assistente, e le troppe attenzioni riservate a una giovane violoncellista russa, Sophie Kauer, mentre si scopre che un’altra sua giovane allieva abbandonata si è tolta la vita. E le cose precipitano. C
ate Blanchett se la gioca benissimo quando deve fare la star fredda e intelligente, pronta a rispondere alle domande del “New Yorker” e a trattare coi colleghi maschi, Mark Strong e Julian Glover, che sembra dominare totalmente. Le crediamo meno quando la vediamo dirigere in maniera un po’ esagitata Mahler o quando cerca di comporre al piano qualcosa di geniale. Alla fine gli attori che interpretano i musicisti esagerano sempre, sono ruoli-trappola mortali, vedi anche il Dirk Bogarde di “Morte a Venezia”, giustamente citato nel film (“Visconti!”).
Il film, esattamente come l’interpretazione della Blanchett, ha il suo fascino, ma alla fine si trascina un po’ troppo in un moralismo revisionista. Certo il dibattito dei giovani musicisti americani sul fatto se sia lecito suonare ancora oggi composizioni di un gruppo di tedeschi, etero, bianchi e maschilisti non l’aveva mai sentito. Perfetto come antidoto alle ugole di Sanremo. In sala da oggi.
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