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Marco Giusti per Dagospia
E’ il miglior film dell’anno. Siete avvisati. Beh, almeno per me. Anche se a Cannes, dove è stato presentato lo scorso maggio non ha vinto nulla, a parte il premio per il miglior cane. Adorabile. Diciamo anche che Paterson, ultima opera di Jim Jarmusch, da anni diventato un grande maestro di quelli che non tradiscono e non si vendono per un piatto di lenticchie, piccoli film poetico sulla scrivere di poesia, è un film che è difficile non amare. Anche se non c’è un filo di storia, di drammaticità, e quella che c’è è subito trasformata in commedia.
E anche se non abbiamo mai guidato un autobus nel New Jersey, come il protagonista del film, Adam Driver, che si chiama Paterson e si muove per le strade di Paterson, la cittadina del New Jersey, cercando ispirazione poetica dalle cose di tutti i giorni. Jarmusch è uno dei pochi poeti rimasti nel mondo del cinema, ancora legato ai festival post-nouvelle vague degli anni ’70.
Un dandy del rock antico come i suoi vampiri snob di Only Lovers Left Alive. E Adam Driver, il suo protagonista, è di una eleganza, di una precisione nel suo ruolo e nel ripetere tutti i giorni le stesse cose da farci scordare per un attimo che è lui Kylo Ren e l’attore più alla moda del momento.
Dopo averci dato il ritratto del disastro di Detroit e della società americana con Only Lovers Left Alive, che era un capolavoro e oggi lo sappiamo, dopo averci descritto in chiave zen un killer pazzo per il rap in Ghost Dog, Jim Jarmusch in Paterson ci descrive sia la bellezza anni ’50 di Paterson, la cittadina nel New Jersey, dove il mondo sembra essersi fermato, e il mondo poetico di Paterson, l’autista. La sua vita è descritta in sette capitoli, o sette stanze poetiche, da un lunedì mattina al lunedì mattina della settimana dopo.
Ogni giorno Paterson ripete le stesse cose con poche varianti, sveglia alle 6, 10, qualche effusione con la bella moglie iraniana, Golshiften Farahani, il ritorno a casa, l’uscita serale col cane Marvin, la sosta al bar di Doc, cioè Barry Shabaka Henley. Le poche varianti sono le diverse poesie che Paterson scrive prima di iniziare a guidare, i dialoghi tra i passeggeri che sente sull’autobus, gli incontri che fa al bar, i dialoghi con la moglie che sta tutto il giorno a vcasa a colorare di bianco e nero qualsiasi cosa o a preparare dolcetti, sempre in bianco nero, per il mercato del sabato.
All’interno di queste piccole variazioni, Jarmusch ci parla di William Carlos Williams, il poeta preferito di Paterson l’autista e che a Paterson tenne un corso di fisica, di Allen Ginsberg, anche lui nato a Paterson, di Iggy Pop, che nel 1970 venne a cantare a Paterson, di Lou Costello, il cittadino più celebre di Paterson, del giornale anarchico che si pubblica a Paterson con titolo italiano, “La conquista sociale”, che si rifà alla memoria di Gaetano Bresci, che da Paterson partì per cercare di uccidere Umberto I.
Ma la moglie Laura cita pure Petrarca, e non a caso si chiama Laura, e porta il marito a vedere un vecchio horror in bianco e nero di quando il cinema era cinema, The Island of Lost Souls. Il film ha una struttura poetica ben precisa e dentro di questa dobbiamo cercare le piccole variazioni e le rime interne che danno un senso a tutto il racconto. Solo se isoliamo i sette diversi risvegli di Paterson e di Laura a letto abbiamo un quadro ben preciso di quello che ha in mente Jarmusch e del suo tipo di lavoro sul linguaggio che si oppone a qualsiasi omologazione da cinema di oggi in digitale.
Per questo Paterson non usa né computer né cellulare e adora un solo colore, il blu. E su questo costruisce tutta una serie di riferimenti poetici. Magari non c’è più spazio nello nostre sale per un film come Paterson, o, magari, in una stagione così povera, è davvero il film di Natale che avremmo voluto tutti vedere e che riporta la pace tra noi e il cinema. Lontano dai cinepanettoni italiani e dalle serie tv americane.
E dimostra quanto Jim Jarmusch sia rimasto fedele alle sue idee di cinema per tanti anni e quanto questa fedeltà gli stia restituendo una grazia e una freschezza del tutto intatte. Ricordiamo solo che le poesie sono scritte da un vero poeta, Ron Padgett e che la fotografia è di Frederick Elmes, responsabile anche dell’intimenticabile Blue Velvet. In sala da oggi nelle grandi città e poi in tutta Italia.
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