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Marco Giusti per Dagospia
Volevo nascondermi di Giorgio Diritti
Ieri sono andato a vedere, eroicamente, “Volevo nascondermi”, il film di Giorgio Diritti sulla vita del pittore Antonio Ligabue, appena presentato al Festival di Berlino, interpretato da un bravissimo Elio Germano giustamente premiato come miglior attore, e anch’esso “eroicamente” presentato nelle sale italiane in pieno delirio del coronavirus. Al cinema Jolly durante la proiezione delle 18, 45 eravamo in tre, me compreso, a vedere il film.
In tutta Italia sono stati, dati Cinetel, in 4514 per un incasso di 25 mila euro, più o meno quello che ha fatto “Bad Boys for Life”. Con le sale così vuote devo ammettere, tanto vale andare al cinema. Certo. Se fossero piene le cose cambierebbero. Ma da quanto tempo non sono piene le sale? Diciamo dalle prime settimane di “Tolo Tolo” di Checco Zalone e dei suoi 45 milioni di euro che, mi sa, nessun film riuscirà più a incassare almeno in questa stagione.
Ma la crisi era già scoppiata prima del coronavirus. E l’aria che girava nelle nostre commedie, coi vecchi comici in vacanza o in tour in Russia, non era delle migliori. Sembrava già un cinema in disarmo. “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti è esattamente quello che pensavo. Un buon film italiano su un tema un po’ lontano che cerca di riportare alla luce una storia oggi un po’ dimenticata del nostro paese di quando eravamo poveri e offre una grande occasione, come già fu col “Ligabue” televisivo diretto da Salvatore Nocita con Flavio Bucci protagonista alla fine degli anni ’70, a un attore per farsi luce e vincere premi.
Già nel ’77 non eravamo più così poveri e non ricordavamo granché né della prima né della seconda guerra mondiale, ma c’erano ancora Cesare Zavattini, che scrisse soggetto e sceneggiatura, con l’aiuto di Arnaldo Bagnasco, e Bernardo Bertolucci, che anche se non aveva mai trattato Ligabue, aveva messo in scena con “Strategia del ragno” e “Novecento” il mondo meraviglioso della Bassa Padana emiliana. Troppo snob e troppo internazionale Bernardo per trattare direttamente con il pittore naif Ligabue, ma nei suoi film degli anni ’70 circola già perfettamente descritto il mondo e la pazzia dei poveri di Gualtieri e dinterni dipinto da Ligabue.
E poi chissà? Parma, cuore di ogni mondo bertolucciano, forse non è Gualtieri, il paese di Ligabue, vicino a Reggio Emilia. Ma il problema rimane, sia per Nocita e il suo sceneggiato del 77 sia per Diritti e il suo film di oltre quarant'anni dopo, che di Ligabue esiste un meraviglioso documentario di Raffaele Andreassi, girato con Ligabue vivo nel 1962, che venne presentato nel 1964 a Berlino e vinse il premio per il miglior documentario. Un documentario che è alla base di tutti e due i film, sia per l’ambientazione che per l’interpretazione di Flavio Bucci e Elio Germano.
Nel film di Diritti, anzi, c’è un attore che interpreta Andreassi e ci mostra quanto quel documentario fosse stato importante per la vita di Ligabue. Basterà vederlo su You Tube per capire qualcosa di più del mondo magico del pittore, ma soprattutto dell’Italia del tempo. Soprattutto quando Andreassi non “mette in scena” il pittore e la sua vita privata, lui che si veste da donna perché solo così si completa, lui che cerca di rimorchiare una ragazza, ecc., ma si limita a riprenderlo mentre urla come animale per i boschi.
Già lì c’è molto Zavattini e c’è molto Bertolucci, c’è molto colore, una meraviglia rispetto al 16 mm che la Rai imponeva per i film-per-la-tv, e una meraviglia anche rispetto allo schermo volutamente pallido e scuro del film di Diritti, ma soprattutto c’è una faccia che nessun attore, ahimé, malgrado la bravura di Bucci e di Germano, ci possono riportare. Ovvio che interpretare Ligabue per un bravo attore sia una grande sfida, ma nella faccia assurda di Ligabue, quella vera, come in quella dei contadini del tempo, leggiamo una storia e un’Italia che non si può facilmente rifare con le facce di oggi.
Per questo Bertolucci, quando girò “Strategia del ragno” volle dei non attori, come Pippo Campanini, come co-protagonisti assieme a Giulio Brogi e Alida Valli, o dei volti assurdi del passato, come quello di Tino Scotti. Dei volti che raccontano un paese, la sua verità. Dietro al volte deforme di Ligabue c’è già la sua storia di povertà, freddo, umiliazioni, rivincita. I quadri, malgrado il premio di De Chirico, che non lo vedeva certo come un avversario pericoloso, sono quello che sono.
Ma il volto e le urla animali di Ligabue sono incredibili. E se non conoscete la sua storia, l’uscita del film di Diritti ce ne offre una buona versione come si può fare oggi, a anni e anni di distanza da Zavattini, Bertolucci, Fellini e i suoi mitici motocilisti della Bassa, come “Scuréza”, con gli attori minori, anche ben scelti, dove però non si legge più la fame e la miseria degli anni ’20 e ’30. Ligabue, che era stato portato in Svizzera, adottato da un’altra famiglia, quando torna a casa si ritrova in un mondo ancora più letale dove deve convivere nella foresta con gli animali per sopravvivere.
Nel documentario di Andreassi l’esplosione di violenza di Ligabue è autentica, come la sua, chiamiamola, pazzia. Diritti, come Nocita tanti anni fa, cerca di riportarcela intatta. Ma è come tutto così lontano, troppi anni di brutta tv, di film emiliani dolciastri alla Pupi Avati, alla fine si sente forte la mancanza di un Bertolucci nel nostro cinema. Detto questo, cercate di sfidare ansie e paure, è un film che va visto e Germano è bravissimo.
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