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“CIRO NON POTEVA MORIRE AVEVA TROPPO DA SVELARE”
Gloria Satta per “il Messaggero”
Sequel e insieme prequel di Gomorra. Ma anche bridge, cioè raccordo tra la quarta stagione, già trasmessa su Sky, e la quinta (in preparazione) della serie italiana più acclamata nel mondo: L'immortale, debutto nella regia cinematografica di Marco D'Amore, 38 anni, napoletano, protagonista nel ruolo dello spietato criminale Ciro Di Marzio, è il primo esempio di prodotto cross-mediale: «Abbiamo fatto dialogare cinema e tv», spiega Riccardo Tozzi di Cattleya che, con Vision Distribution di Nicola Maccanico, ha prodotto L'immortale, nelle sale il 5 dicembre.
Spettacolare, epico, denso di colpi di scena (l'ultimo, clamoroso, anticipa i prossimi episodi di Gomorra), il film ritrova Ciro ancora vivo dopo che Genny gli ha sparato: nascosto in Lettonia, gestisce il narcotraffico mentre russi e locali si fanno la guerra e il suo passato napoletano di bambino di strada, reso orfano dal terremoto del 1980 e spinto all'illegalità da un contrabbandiere, riaffiora nei flashback.
Cosa l'ha spinta, D'Amore, a girare il film?
«La mia ossessione di scoprire le origini di Ciro. Da sette anni, da quando cammino spalla a spalla con il personaggio, volevo capire cosa aveva fatto di lui un feroce criminale. Non ho mai smesso di interrogarlo come un oracolo nero e di sognarlo, anzi di averne l'incubo».
E alla fine cosa ha scoperto?
«La sua storia intessuta di conflitti, miserie e soprattutto paura. Un boss, con cui mi capitò di parlare, mi confermò che i criminali vivono nel terrore costante di non essere all'altezza o di venire ammazzati».
Nel film, il presente si alterna al passato: com'è cambiata, nel tempo, la criminalità napoletana?
«Il contrabbando di sigarette, che negli Anni Ottanta dava da vivere a 250mila famiglie, ha lasciato il posto al narcotraffico. Ho messo in scena cose che ho visto. Soprattutto la povertà della Napoli disastrata dal sisma e mai ricostruita, una città in cui i bambini sopravvivevano grazie a furti e atti criminali. Ho reso omaggio a chi, a differenza di me, non ha avuto l'opportunità di vivere serenamente e progettare il futuro».
Ciro Di Marzio le ha dato la grande popolarità: non ha temuto, non teme di venire fagocitato dal ruolo?
«No, non ho paura di lui. Come attore, sono più interessato alle storie che ai personaggi e su Ciro avevo ancora da indagare. La mia lunga esperienza teatrale mi ha insegnato tra l'altro a non giudicarlo».
La serie piace anche alle superstar, da Madonna a Benicio Del Toro: non sogna una carriera a Hollywood?
«Mai avuto il sogno americano. Da Los Angeles si sono fatti avanti degli agenti, ma preferisco affermarmi in Italia».
Come ha scelto l'undicenne Giuseppe Aiello che interpreta Ciro da piccolo?
«Ho visionato tanti bambini, poi a Scampia ho trovato lui. Quando gli ho chiesto perché volesse girare il film, mi ha risposto Perché sono buono. Incarna la bellezza di certi luoghi in cui si pensa non ci sia nulla di positivo».
Il pubblico non rischia di parteggiare per un criminale feroce come Ciro?
«Anche lui, come tutti i cattivi del cinema, esercita un grande fascino. Ma gli spettatori sono capaci di fare i conti con la realtà e prendere le distanze dal racconto».
Smetterà un giorno di recitare per fare solo il regista?
«Non lascerò mai il teatro, cinema e tv sono magnifiche parentesi. Continuerò a produrre film. E a recitare, magari con maestri come Pablo Larraìn e Paul Thomas Anderson».
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