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Piero Mei per "Il Messaggero"
IL TIFOSO
Lo si poteva incontrare, fino a non molto tempo fa, anche se sempre più curvo e rimpicciolito, in un ippodromo di Roma (a Villa Glori, quando c'era, ci andava comodo, giacché si trovava a quattro fermate di tram da Piazza del Popolo; alle Capannelle, da ragazzo, ce lo portava un suo amico, Enrico Pichetti, che aveva la macchina e lo faceva sentire un signore) oppure allo stadio: tra il popolo di Testaccio prima, e nella tribuna d'onore poi, quando era già Andreotti, eppure, diceva, aveva sentito più parolacce dov'era l'onore che non dov'era il popolo.
LE DUE PASSIONI
I cavalli e il pallone, cioè la Roma, erano le sue grandi passioni sportive. Di sportivo non aveva altro: del resto sottolineava con la riconosciuta ironia che spesso sapeva d'amaro cinismo, che «tutti i miei amici che facevano sport sono morti da tempo».
Lui qualche calcio al pallone l'aveva pur tirato da ragazzo, attratto specialmente dai calciatori della Roma che andavano a mangiare alla trattoria sotto casa sua, a piazza Firenze, eppure l'attività ginnico-motoria poco l'attraeva: ricordava che erano più le volte che sfuggiva alla lezione di educazione fisica che non quelle che presenziava, probabilmente senza troppo impegno né voti troppo alti.
Era diventato romanista a otto anni: diceva, con un po' di civetteria, che prima non avrebbe potuto giacché la Roma non c'era ancora. Poteva crescere laziale, e del resto il suo collegio elettorale e la sua trasversalità lo portarono talvolta a intervenire anche a favore della società biancoceleste nei momenti che se la passava male; però, all'età della ragione, scelse la Roma e fu Roma per sempre.
Raccontava che da ragazzo i soldi per la merenda li spendeva per l'Osservatore Romano, che girarci con la copia sotto braccio dava un tono, però a scuola si buttava sul Corriere dello Sport, che forse era Il Littoriale all'epoca, e leggeva anche quello: con il vantaggio, rispetto ai coetanei, di avere due fonti d'informazione. La terza sarebbe stata, più tardi, Il Cavallo, trisettimanale ippico che riportava programmi e risultati di tutta Italia. Per i cavalli e per il calcio Giulio Andreotti si sarebbe fatto anche indignado, si direbbe oggi.
Una volta alle Capannelle, insoddisfatto per il verdetto del giudice d'arrivo, partecipò attivamente a una sassaiola contro lo stesso. Era Alberto Folchi: più tardi sarebbero stati ministri nello stesso governo. Un'altra, da romanista, andò in piazza per protestare contro la cessione di Capello alla Juve. Quando poi mister Capello alla Juve andò di suo, da allenatore, Andreotti commentò semplicemente: «Sopravviverò, la Roma sopravviverà ; in duemila anni questa città ne ha viste tante, pazienza».
LA ROMA
Poco prima, nei giorni del terzo scudetto, parlando delle feste giallorosse per le strade, aveva detto: «E' il più lungo festeggiamento mai visto in città dai tempi dell'imperatore Commodo». Di queste feste fu partecipe ma non artefice; artefice fu, al contrario, della Roma ai tempi di Dino Viola, anche se ammetteva un solo intervento: quello per trattenere in giallorosso Falcao. Telefonò a mamma Azise e le disse che il Papa sarebbe stato felicissimo se Paulo Roberto fosse rimasto alla Roma. Sosteneva che in fondo non era una bugia ma solo una piccola forzatura, diceva d'aver sentito il Papa durante un'udienza alla Roma domandare se Falcao sarebbe rimasto.
LE OLIMPIADI
Fu anche il presidente del Comitato organizzatore dei giochi olimpici di Roma 1960, quelli che per la prima volta vollero un solo villaggio olimpico e non due fra occidentali e sovietici; quelli in cui assistette anche a una minuziosa discussione fra Onesti e i pescatori di cozze di Napoli perché quelle acque furono il teatro della vela; quelle nelle quali il suo discorso inaugurale allo stadio Olimpico apparve interminabile e non arrivò alla fine, messo a tacere dagli atleti che non vedevano l'ora di gareggiare dal pubblico che non vedeva l'ora di assistere al «più grande spettacolo dopo il Big Bang» che sono le Olimpiadi.
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