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Michele Anselmi per "il Secolo XIX"
Una passione cinefila divorante? Un'ambizione segreta? Il coronamento di un sogno? Giunti al culmine della carriera, i giornalisti di grido, specie se vengono dalla politica e dintorni, si mettono a scrivere di cinema. Proprio da critici o quasi. Gli incassi scendono, i film sono allegramente "scaricati" e visti gratis alla faccia del diritto d'autore, le recensioni contano poco o niente, per la serie «pagine piene, sale vuote.
Eppure l'idea di essere ammessi a una proiezione privata e sdottoreggiare il giorno dopo in prima pagina, magari "problematizzando" il tema del film per riportarlo a una dimensione autobiografica (io mamma, io papà , io cattolico, io ateo, io progressista, io reazionario...), è una tentazione irresistibile. Infatti resistono in pochi.
Non che i critici patentati, quelli che il compianto Tullio Kezich chiamava ironicamente "scribi", siano sempre meglio. Anzi. La routine genera pigrizia, rassegnazione, assuefazione, povertà di stile. Così è raro che la recensione classica, di merito artistico, finisca in prima pagina. Magari solo per i film di Nanni Moretti, Paolo Sorrentino o Matteo Garrone, meglio se parlano del Caimano, del Divo o di Gomorra. E quando succede non sono più i critici titolari a scriverne, visti come specialisti e noiosi, bensì le firme di punta, ritenute più yé-yé e aggressive, dotate di antenne sensibili, in grado di intercettare, come s'usa dire oggi, gli umori della società .
Guida la tendenza "la Repubblica". Brillanti colleghi come Concita De Gregorio, Curzio Maltese o Natalia Aspesi, cresciuti a inchieste e politica, congressi e sfilate, si contendono i film di cui si parla, prenotandosi per tempo, alla faccia del critico ufficiale del giornale. Ma succede anche al "Fatto Quotidiano", dove Luca Telese, Furio Colombo e Marco Travaglio divagano volentieri sui temi del cinema. Fino a qualche mese fa si esibiva nell'arte della contro-recensione Stefano Cappellini sul "Riformista"; e a volte non si nega Luca Ricolfi su "La Stampa".
Vale pure a destra, naturalmente: Marcello Veneziani o Massimiliano Parente sul "Giornale", Camillo Langone o Pietrangelo Buttafuoco su "Libero", occasionalmente, se c'è da elogiare "Juno" in chiave anti-abortista, Giuliano Ferrara sul "Foglio". E che dire degli scrittori, talvolta anche sceneggiatori, che si misurano con la cine-recensione sui grandi giornali: da Francesco Piccolo a Vincenzo Cerami e Marco Lodoli.
I film che accendono le attenzioni di questi critici-non critici-ma critici sono un po' sempre gli stessi: il fenomeno comico Checco Zalone, i luoghi comuni e l'Italia anti-razzista di "Benvenuti al Sud", la moda giovanile dei "Soliti idioti", l'incantamento mistico di "The Tree of Life", il neorealismo di Cetto La Qualunque, Verdone prete-missionario in crisi di vocazione, la chiesa sconsacrata di Olmi che ritrova se stessa accogliendo i migranti, il Papa spaventato di Moretti.
Il cinema, insomma, come antidoto alto alla chiacchiera politicista, materia nobile o plebea sulla quale arpeggiare con lo sguardo al costume nazionale, specchio di un Paese effettivamente difficile da ritrarre giornalisticamente, perché sfugge da tutte le parti.
D'altro canto, se è vero che in ogni italiano si annida un commissario tecnico di calcio, non v'è dubbio che in quasi tutti i giornalisti alberga un critico di cinema.
Carlo Puca, fine retroscenista politico di "Panorama" finito in una delle fantasiose commissioni nominate dal ministro Giancarlo Galan prima di andarsene, ha appena ricordato al "Secolo XIX" d'essere iscritto al Sindacato giornalisti di cinema. Perfino un augusto banchiere come Giovanni Bazoli, sulla prima pagina del "Corriere della Sera", ha recensito "Il villaggio di cartone" spiegandoci che «Olmi questa volta non ha voluto comporre un affresco realistico e poetico (come "L'albero degli zoccoli") né un racconto epico (come "Il mestiere delle armi")», bensì «realizzare un film al fine esclusivo di porre agli spettatori - e probabilmente riproporre a se stesso - alcuni interrogativi che sono tra i più inquietanti del tempo in cui viviamo». Grazie, non c'eravamo arrivati.
Molto s'è sorriso, recentemente, di un'accorata confessione di Concita De Gregorio «sul senso di sconfitta e sgomento, una specie di incredulità » da lei vissuto, in quanto madre, di fronte al tifo sperticato dei suoi figli per "I soliti idioti". Non parlava da padre, invece, Luca Telese quando, pressato dal bisogno impellente di esprimersi su "Habemus Papam", vergò sul "Fatto": «Ho divorato tutto quello che è stato scritto sul film di Moretti, e mi sono reso conto che nessuno ha parlato di una delle cose che a me è piaciuta di più: cioè della straordinaria capacità di tenere insieme, con una leggerezza rara e con un ritmo di narrazione incalzante, un sentimento molto tragico e una sceneggiatura molto comica». Nessuno?
Ogni tanto, però, i critici-critici si vendicano. Come quella volta che Paolo Mereghetti del "Corriere della Sera", letta la recensione di "Uomini che odiano le donne" a firma del critico letterario di "Sette", vergò piccato: «A ignorare del tutto la trama forse si finisce per gustarlo di più, senza farsi prendere dal perverso giochino delle corrispondenze più o meno mantenute tra pagina scritta e schermo (argomento su cui si è già espresso sulle pagine del nostro settimanale Antonio D'Orrico, e su cui ha apposto la sua definitiva sentenza: sì, il film rispetta perfettamente il romanzo, anche se "raffredda" l'attività sessuale del protagonista. Ipse dixit)».
Poi, s'intende, meglio scrivere di cinema che provare a farlo. Quando Indro Montanelli si improvvisò regista per "I sogni muoiono all'alba" il risultato non fu dei più memorabili.
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