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Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
COVER LIBRO BUTTAFUOCO SU LONGANESI
Chi non ha mai letto Leo Longanesi, non ha mai visto un suo disegno o sfogliato una sua rivista o sorriso di un suo motteggio, ha l' occasione per rifarsi. La casa editrice che porta tuttora il nome del fondatore, nel festeggiare i settant' anni di attività, offre un assaggio dell' uomo e della sua prosa con un' antologia - Il mio Leo Longanesi, a cura di Pietrangelo Buttafuoco - che attraverso umori, malumori e presagi di un mondo che cambia conferma il meglio di un genio figlio della modernità.
È troppo dimenticato Longanesi - scrittore, editore, grafico, pittore, fotografo, pubblicitario, animatore di notti bolognesi, viveur, flâneur - per essere familiare al grande pubblico. Troppo esorcizzato, anche. È pur sempre, lui, il «carciofino sott' odio». Beato dunque chi non lo conosce, perché al piacere della sorpresa delle più folgoranti tra le pagine del giornalismo del Novecento, del più cinico tra gli antipatizzanti dell' autocompiaciuto sentimento comune, aggiunge la scoperta di un tassello importante nel mosaico dell' identità nazionale.
Non avendo avuto modo di essere tra i venerati maestri - rubricato tra i caratteracci, squadrista della prima ora, frondista sempre, antiantifascista nel dopoguerra - Longanesi fu fondatore e direttore di riviste come «L' Italiano», «Omnibus» e, nel dopoguerra, facendo da collettore del conservatorismo, «Il Borghese». Non si tratta ovviamente di minimizzare di un' oncia errori e orrori del regime. E sarebbe ipocrita negare le responsabilità morali che pure Longanesi ebbe.
Ma sarebbe ipocrita pure negare che con «Omnibus» innovò il giornalismo italiano, presentando in anticipo su tutti una rivista con «tante immagini e testi ben fatti», e lanciando così il rotocalco, il settimanale d' informazione in cui il corredo fotografico e la scrittura hanno stesso peso e uguale dignità.
Nei due anni di vita di «Omnibus», prima che il MinCulPop ne frenasse con la chiusura l'eccessiva indipendenza, vennero ospitate le migliori firme italiane e tradotti i maggiori scrittori americani, da Ernest Hemingway a John Steinbeck. Giornalista portentoso, in cui la vita e il mestiere si fondono con l' osservazione e la scrittura, Longanesi fu sempre mosso dal demone della narrazione.
Capiva tutto prima di tutti, scriveva perché aveva idee e carattere, trovava davvero una ragione nell' azione intellettuale, nell' operazione culturale e bruciava veloce verso l' ultimo giorno. La sua morte, infatti, fu rapida. Morto per amore, scrisse Indro Montanelli. Poco prima di andarsene cinquantaduenne a causa di un infarto e nel suo studio, sussurrava: «Proprio come avevo sempre sperato: alla svelta, e fra i miei aggeggi».
Longanesi fu la matrice giornalistica di Montanelli e Arrigo Benedetti, cresciuti alla sua scuola, e dunque radice dell'eredità liberale e del «Mondo» di Mario Pannunzio; ma un ramo della sua eredità rappresenta anche un affluente di «Repubblica» e dell'«Espresso». Tutto il giornalismo italiano, insomma, deve qualcosa a Longanesi. E la sua è una figura che non va assegnata ad alcuna categoria: considerarlo un umorista o un semplice battutista, mentre in realtà fu uno straordinario inventore di aforismi, è sbagliato. Ma succede spesso.
Per comodità - è la tesi di Buttafuoco - Longanesi viene passato come un Ennio Flaiano più chic e ancora più anticonformista, anche perché sul genio di Bagnacavallo - la città romagnola da dove hanno origine la famiglia e la storia di Leo - non manca mai «un cretino che al fiorire di un motto - di una spiritosaggine o di qualunque aforistica asserzione - non si premuri di attribuirla a Longanesi». In questi tempi di social, in cui il format rapido della citazione e della frase vince su tutto, si rischia di ridurlo solo alle sue formidabili battute.
LONGANESI E LA MOGLIE
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Ma c' è ben altro. Buttafuoco, cresciuto da suo padre, Saro, «a pane e Longanesi», con questa antologia ci mostra la sceneggiatura e la pellicola, senza che venga girata, e ne fabbrica un film. È Il Longanesi animato , una sorta di autobiografia dell' identità nazionale, confermata anche nel sottotitolo: Lacerti di un' Odissea borghese .
Leo - che con Carlo Goldoni e Gioacchino Rossini secondo Buttafuoco completa la triade del canone comico italiano - pensava che la commedia fosse il segno della patria e caratterizzasse sia la vita sia il cinema nazionale. A suo giudizio, la cinematografia italiana degli anni Trenta era - e sembra di leggere, suggerisce il curatore, una recensione ante litteram de La grande bellezza di Paolo Sorrentino - «una serie di cartoline acritiche, di ritratti degli aspetti più sciocchi della vita italiana».
È chiaro da quest' interesse che Longanesi avrebbe voluto pure girare un film; ma a parte qualche collaborazione non poté esprimersi compiutamente con il cinema. Il suo unico tentativo da regista, Dieci minuti di vita in cinque episodi (soggetto scritto con Steno e Flaiano), venne interrotto nel 1943 a causa dell' occupazione tedesca di Roma.
Perciò questo libro anima Longanesi, antologizzandolo in forma di sceneggiatura, di romanzo d' immagini (ma scritte) come forse l' avrebbe voluto lui.
Un libro - un film, anzi, una commedia - che è tutto vita, che pulsa, dinamico e vivace come una newsroom. Ne viene fuori una freschezza che manca purtroppo all'Italia di oggi e che mostra una versatilità di mezzi degna di Prima pagina e - così si legge nel saggio introduttivo - «senza aspettare Billy Wilder» .
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