“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
Mauro Covacich, “La sposa”, Bompiani
DAGOREPORT
C’era rimasto male lo scrittore Mauro Covacich quando aveva scoperto che l’Associazione per la gestione del Centro di promozione territoriale di Sistiana avesse scelto di chiamarsi “Trieste SottoSopra”, come il titolo di un suo libro Laterza del 2006. “Potevano almeno citarmi”, disse.
Beh! Ma non è mica colpa dell’associazione se il titolo del libro non era poi così geniale! Come se uno intitolasse un libro “Milano di notte” con la pretesa che nessuno usi più l’espressione. Altri, in compenso, avevano protestato verso di lui quando, in un articolo del 2002 su Kafka, aveva sommato una serie di inesattezze: Kafka non aveva scritto La metamorfosi a 32 anni ma a 29, Kafka non si era ammalato nel 1912 bensì nel 1917, “ma la cosa più incredibile – scrisse l’adirato lettore - è che Covacich sostenga che la Metamorfosi sia stata scritta in una notte!!
AAArrggghh!!! Oh Covacich, il racconto scritto in una notte si chiama Il verdetto ed è stato scritto in quella del 22 settembre 1912, occupa 11 pagine, misura adatta ad un racconto scritto nell'arco di una nottata. Ma dico io, come si fa a scrivere che K ha scritto un racconto di 80 pagine in 8 ore al ritmo di 10 pagine all'ora? Ma dove vivi Covacich”.
Non sappiamo dove viva né quanto ci abbia messo a scrivere i suoi 17 raccontini raccolti in “La sposa”; ma per quel che ne risulta alla lettura, per alcuni, una nottata, è già troppo. Del resto pure lui ammette che non sono gran cosa: sono “un flusso di pensieri sul presente, in cui talvolta situazioni o comportamenti fuori dall’ordinario, in teoria non adatti alla letteratura, mi sembrano rivelare i cosiddetti recessi della vita normale”. Pensieri in libertà, non letteratura.
Nelle storielle si parla di un po’ di tutto, dalla Franzoni a Wojtyla… ma poiché senza preparazione (“da autodidatta”, ha detto) a Covacich è venuto il pallino dell’arte, alcuni racconti sfiorano argomenti artistici. A partire da quello che dà titolo alla raccolta. Intendiamoci, Covacic può scrivere d’arte su “Vanity Fair” non certo sul “Burlington magazine”, così come la Mazzucco – quella che copiò “Vita” da “Guerra e Pace” di Tolstoj e i 400 pensionati della Domenica non si accorsero - lo fa su “Repubblica”.
Non altro. “La sposa”, infatti, titolo del primo racconto di Covacich è la storia delle ultime ore della povera Pippa Bacca, nipote del grande Piero Manzoni che, in puro familismo italico, pensava di fare l’artista, la performer. Nel 2008 Pippa indossò un vestito da sposa e incominciò a viaggiare in autostop in 11 paesi teatro di conflitti per promuovere la fiducia nel prossimo.
Risultato: il 31 marzo a Gebze, in Turchia, fu presa da un uomo, violentata e uccisa. Il raccontino delle sue possibili ultime ore è l’occasione, sbagliata, in cui Covacich fa trasparire che la sa lunga sull’arte contemporanea: “Ci sono artiste – scrive in un racconto (racconto dico!) - che si fanno ispezionare il collo dell’utero, artiste che si decorano il seno con piccoli colpi di bisturi o si offrono nude su un tavolo mettendo a disposizione del pubblico ogni tipo di arma” (p.13).
Caro Covacich, lo sappiamo anche noi cosa hanno fatto Marina Abramovich o Regina José Galindo ecc ecc… ma che tono è in un racconto, questo? Una specie di allusione stile io so e voi non sapete? E’ un tono che si trova anche altrove: “Ecco venirvi incontro un marocchino dinoccolato, fiero della sua djellaba in pieno stile Lawrence d’Arabia (ma tu non sai…)” (p.80).
A parte che vien voglia di tirargli un pugno, ma anche se non so cosa sia la djellaba vado su Wikipedia e lo vedo e tu non dovresti scrivere così se sai che io non so … O come quando, per raccontarci che la sua miglior studentessa confonde il nome di Tintoretto con quello di “Tintorello” (fa ridere?) ci mette sei pagine piazzandoci, lui - grande esperto d’arte veneziana - un’ambientazione improbabile, visto che ritrova le studentesse “sedute sugli scalini della basilica” di San Marco (p.67): scusa Covacich, quali scalini ha San Marco?
Il tutto raccontato a un tizio “con un sorriso tatuato in faccia” (p.66) che vive tra yoga, sandalo, bicchierini marocchini, saké, infusi di cardamomo imparati nel Punjab, che accende candele giganti come uno sciamano, “risistema le gambe incrociate in quello che è a tutti gli effetti un ashram del Tamil” e che, naturalmente, ha “pezzi di sushi in bocca” (p.63-65, chissenefrega), aspetto al quale ormai nessun scritture sembra voler rinunciare (da Houllebecq in giù).
Covacich è consapevole di cosa suscitano i suoi libri. In una intervista del 26 maggio 2012 a Ragusa, nei locali dell'Ex Facoltà di Lingue e letterature straniere, alla domanda “Forse non è un caso che spesso i tuoi libri non danno una carezza emotiva ma uno schiaffo emotivo” la sua risposta fu: “I lettori, sì, ne escono sempre disgustati, amareggiati”. L’ha detto lui.
PRIMA LETTURA, MARCO SANTAGATA
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