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Francesco Persili per Dagospia
“Io il ’68 l’ho vissuto dietro a un tavolino. Non ho partecipato. Ogni tanto veniva della gente con il naso rotto e mi raccontava cosa stava succedendo…”. In piena rivolta studentesca De Andrè scriveva di Gesù di Nazareth e si dilettava nel raccontare le avventure del povero Fracchia, uno studente, poi diventato famoso grazie al genio di Paolo Villaggio: “Alla sedicesima volta che dava Istituzioni di Diritto romano vomitò la colazione sulla cattedra della professoressa, incaricata perché era la moglie di un ministro…”.
E’ una delle gocce di splendore contenute nel libro “Anche le parole sono nomadi”, curato dalla Fondazione Fabrizio De Andrè Onlus. Un viaggio, attraverso canzoni, appunti e altri scritti, al centro dell’homo Faber, che diventò “belinone da palcoscenico e non avvocatucolo” grazie a Mina. Fu lei a cambiargli la vita quando decise di interpretare “La canzone di Marinella”. “Se non l’avesse fatto, io non avrei continuato a fare questo mestiere perché di palanche non ne arrivavano…”. Volta la carta e finisce in gloria.
“Uno comincia a scrivere per divertirsi e per divertire, poi se ha culo, succede che lo istituzionalizzano”. Ci aveva visto lungo Faber: a 20 anni dalla morte, il suo nome campeggia su molte scuole, i suoi versi sono diventati oggetto di tesi di laurea, inesausta fonte di ispirazione anche per altri artisti (“Cerco un po’ di te/ nei testi di De Andrè”, canta Fedez) e argomento colto di discussione sulla differenza tra “canzone” e “poesia”.
Il musicista genovese 'bigger than life', “cantore degli ultimi, delle infinite princese, della vita negata e delle traviate”, ridotto a una definizione, depotenziato nella figura del santino da esibire con posa pensosa, maglione a collo alto e citazione incorporata. Un rischio ampiamente previsto da De Andrè: “Invece di restare un cantautore si rischia di finire per essere una cosa che poi si va a vedere al Museo Egizio di Torino, cioè ti imbalsamano. E un modo per imbalsamare è quello di mettere un tuo testo in una antologia scolastica. Io non dico che non ci tengo perché anch’io ho il mio amor proprio, però c’è il rischio di restare ingessati…”.Quanto di più angusto ci possa essere per chi ha viaggiato sempre in direzione ostinata e contraria, senza verità assolute in cui credere (“Le sue canzoni non si prestano né al coro, né all’inno. Alla sua biografia manca l’imputazione per convinzioni politiche”, scrive Erri De Luca nella postfazione), libero di contaminarsi come ai tempi di “Creuza de Ma” quando i discografici erano convinti che quel disco non lo avrebbero venduto neanche a Genova.
Paolo Villaggio e Fabrizio De Andre
La storia prese poi un’altra piega e quell’album, che sa di Mediterraneo, Pasolini (“Il dialetto è il popolo e il popolo è l’autenticità”) e world music, resta una delle manifestazioni più potenti del codice De Andrè. “E’ sempre dai comportamenti non uniformi e non omologati al gregge della maggioranza che l’umanità riesce a trovare spunti evolutivi”, scrive Faber.
"E poi via di nuovo verso il vento/ davanti agli occhi ancora il sole”. Guardano e invitano al “riscatto” le sue parole. Cambiano di significato, si arricchiscono, vanno fuori dai margini, raccontano un mondo in cui “i vinti di ieri diventano i vincitori di domani”. “Chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di rassomigliare a se stesso, è già di per sé un vincente perché muove la storia”. Una direzione sempre “allegramente” ostinata e contraria, quella del “belinone” Faber.
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