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francesco de gregori e roberto d’agostino
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Eccolo che arriva, controluce impossibile scorgerne il volto, ma la silhouette è inconfondibile. Altissimo, eternamente longilineo, cappellino alla Lester Young (pork pie hat), andamento dinoccolato, Francesco De Gregori ha una sagoma unica. Come lo skyline-cartolina di Manhattan, come Michael Jackson o Hitchcock o Dylan, il suo idolo, col quale lo scorso primo luglio ha condiviso il palco al Lucca Summer Festival.
Silenzioso, schivo, esorcista del superfluo, illusionista della parola cantata, già quarant’anni fa fece uscire dal cilindro conigli e colombe con Rimmel , che il prossimo 22 settembre celebrerà all’Arena di Verona con un concerto di all-star che si preannuncia memorabile (tra sli ospiti, Malika Ayane, Caparezza, Elisa, Fedez e Giuliano Sangiorgi). Inutile lasciar ondeggiare il turibolo e profumarlo d’incenso, tanto lui non ci sta.
francesco de gregori e piero pizzi cannella
Dichiara la sua scala reale prima ancora che l’avversario abbia il tempo di rilanciare. «La metto subito in guardia, lei sta intervistando un uomo superficiale», dice in una pausa del Vivavoce Tour, mentre con indice e pollice si porta in bocca fettine di prosciutto tagliato a mano nel ristorante sotto casa sua, a Roma, dove De Gregori non è Francesco, ma “il maestro”.
«Non ho passioni, né segrete né ufficiali, al di là di una che è facilmente intuibile, la musica. E già mi pare esagerato chiamarla passione. Ho riflettuto sulle cose che segnano l’esistenza, ho fatto un esame di coscienza e mi sono chiesto, quali sono le mie passioni? E ho scoperto che non ne ho. Anche il mio lavoro: l’ho sempre fatto senza approfondire. Un esempio? Son quarant’anni che suono e non sono mai diventato un bravo chitarrista, vorrà pur dire qualcosa. Se la mancanza di disciplina è una delle caratteristiche del pop, io la cavalco alla grande. Tutti pensano che io sia un cinefilo appassionato.
Al dunque citerei solo titoli ovvi, 8 e 1/2 , Orizzonti di gloria e i film dei fratelli Cohen. Sono un dilettante, un grande dilettante. In tutto». Nel regno dei cantautori, un regime totalitario che nella seconda metà degli anni Settanta ha eretto una fortezza inespugnabile intorno alla musica, De Gregori è stato il principe. Mai l’imperatore, proprio per la tendenza di lasciare la corona del Sacro romano impero ad arrugginire in cantina.
Ma la storia parla chiaro, e i titoli strillano: Niente da capire , Pablo (scritta con Lucio Dalla), Pezzi di vetro , le collaborazioni con De André, Buonanotte fiorellino , che i critici fecero a pezzi e il pubblico non ha mai tolto dal comodino, e quasi dieci anni più tardi un formidabile rilancio con La donna cannone . Reazioni che avrebbero scatenato un terremoto anche nella vita di un sadhu. «Boh. Dal punto di vista dei miei comportamenti nulla è mai cambiato», sbuffa il principe.
«Avevo ventiquattro anni, un periodo di rivoluzioni interiori in qualsiasi giovane vita. Rimmel fu una consacrazione inattesa. Ho saputo solo più tardi che Ennio Melis, il boss della Rca, aveva fortemente creduto nel progetto, al punto di inondare letteralmente i punti vendita. Senza il suo entusiasmo forse non staremmo qui a parlare.
Ovvio: il successo, l’adulazione, il denaro cambiano tutto quel che ti gira intorno, ma nessun disco, giuro, è stato uno spartiacque nella mia vita. Il modo di riferirmi agli altri, al mondo, alla discografia, al pubblico è sempre quello. Felice? Certo. Ma mai ragionato in termini di ville e macchinoni».
gabriella giammanco fulvio abbate francesco de gregori benedetta rizzo
Dunque, cantautore per caso più che per passione. «In quel periodo, a Roma, tutti volevamo diventare cantautori », racconta. «C’era una fioritura, e un locale, il Folkstudio, che ci offriva lo spazio adatto. Io la vivevo romanticamente, abitavo lì a due passi, a Trastevere, in Via del Mattonato, un appartamento che era stato di Lina Cavalieri (soprano e attrice, “la donna più bella del mondo” ndr ).
Immagino di avere un certo talento se sono arrivato fin qui. Ma storicamente ho preso questo treno nel momento in cui la piattaforma era affollata; eravamo in tanti, e c’era anche tanta attenzione da parte del pubblico giovanile, miei coetanei che volevano cantare, essere cantati e ascoltare. Avevo uno stile che ad alcuni poteva anche sembrare sgradevole, ma certamente molto personale; un modo di scriver canzoni fortemente evocativo, brani che lasciavano il segno, inusuali, nel bene e nel male».
Quando la musica era una vera passione, da bambino o poco più avanti, s’immaginava in grande. I sogni non sono mai low profile. «Già a dieci anni trovavo seducente l’idea di fare il cantante», confessa.
«Andavo pazzo per Gianni Morandi. Mi mettevo davanti al vetro della finestra a rifare le sue canzoni. Andavo con mamma e papà al cinema teatro Vascello, a Monteverde, guardavo il palcoscenico e m’immaginavo lì sopra davanti all’asta del microfono. Passione giovanile — a quell’età hai l’entusiasmo, lo slancio, non consideri momenti critici né controindicazioni. Mio fratello (Luigi Grechi), di sette anni più grande, già suonava la chitarra, fu lui il mio primo idolo, si pettinava come avrei voluto io, aveva i jeans che avrei voluto indossare io». Da quattro decenni famoso e assente, con poche eccezioni, dai rotocalchi e dal piccolo schermo. Invisibile nel jet set.
de gregori carofiglio strinati
«Già sentirne parlare mi dà fastidio. Non me ne frega un cazzo. Sono persone spaventose. Vip, jet set e coccole sono parole che mi rendono nervoso. La tv mi ha sempre messo a disagio. Ho riacquistato una certa confidenza solo in questi ultimi due, tre anni. Il linguaggio televisivo non è il mio, quelle luci, quei tempi, quella regia. Il playback imperava e io lo detestavo. Solo a Doc , dove si suonava dal vivo, andai volentieri, Discoring e Domenica in mi facevano soffrire.
Ci andavo con lo spirito di uno che entra nel casello della Salerno-Reggio Calabria. Non ce la facevo ad affrontare la via crucis protocollata della promozione. Oggi la prendo con più leggerezza, sono anche stato a X Factor , il diavolo della musica. Ho capito che se non lo faccio rischio di estinguermi, e non mi va. La saggezza della maturità». I colleghi fanno film, scrivono romanzi, firmano articoli, talk show a profusione, tutti maîtres à penser, girotondisti…
«Essendo un uomo superficiale non posso permettermi di essere un tuttologo », taglia corto. «Siete voi giornalisti che ci volete così, quando venite a chiederci che ne pensiamo di Renzi o Di Grillo — e qualcuno di noi, sventurato, risponde». Ha appena vinto un Nastro d’argento con il brano Sei mai stata sulla luna? , colonna sonora dell’omonimo film di Paolo Genovese, e ha prestato la voce a due audiolibri, America di Kafka, dopo Cuore di tenebra di Conrad. Se la conceda una passione!
«Guardi, superficialità per me non ha un’accezione negativa. La specializzazione uccide l’artista. Hai una visione più ampia se resti in superficie, se vai in profondità non hai orizzonte. La superficialità mi garantisce più libertà, non mi fa sentire in colpa perché non ho cognizione di tante cose, mi permette di sbocconcellarle e di assumerle senza sensi di colpa. Ci sono libri fondamentali nella vita di un buon lettore che non ho letto e non leggerò mai, me ne frego. Ora con Kindle forse…».
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