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Stefano Della Casa per “la Stampa” - Estratti
È proprio vero: lo sguardo al femminile sul cinema non è (solo) un prodotto del #MeToo, ha origini lontane. Anzi, lontanissime. Nei primi decenni del 900, quando il cinema era muto, erano tantissime le registe donne e le star femminili dominavano la scena senza complessi di inferiorità nei confronti dei colleghi maschi.
E tre recenti avvenimenti librari e cinematografici ce lo confermano.
Il più importante riguarda l'indagine (lei usa proprio questo termine) che Melania Mazzucco compie su Diana Karenne, diva la cui vita è circondata dal mistero. Veniva dalla Polonia (ma lei diceva dalla Russia), era ebrea, non è tornata a Est dopo la rivoluzione di Ottobre, era nota per una certa sfacciataggine, gira film non solo in Italia ma in tutta Europa, fa spargere la voce di essere morta durante un bombardamento ma pare proprio che sia morta invece molti anni dopo la fine della guerra.
È stata definita «la più intelligente di tutte» da chi ne ha studiato la vita e i pochissimi film conservati fino ai nostri giorni. E poi, particolare non trascurabile, molti sono convinti si tratti di una spia. Cambiò più volte il nome con cui appariva sullo schermo, modificò spesso nelle interviste le sue origini. Una storia avvincente quella del libro Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne (Einaudi), ma soprattutto raccontata splendidamente dalla Mazzucco, con una prosa coinvolgente e una passione che traspare in ogni pagina.
La stessa passione la troviamo in un documentario che Sonia Bergamasco (in questi giorni al Carignano di Torino con La locandiera di Goldoni) dedica a Eleonora Duse, forse la più importante presenza del teatro italiano di inizio 900. Duse, The Greatest è un viaggio alla scoperta di una donna che ha saputo calcare le scene di tutto il mondo, ha vissuto da donna libera una storia d'amore con Gabriele D'Annunzio e ha tra le sue più importanti ammiratrici due vere signore del cinema contemporaneo come Ellen Burstyn e Helen Mirren.
Scritto con la docente universitaria Maria Paola Pierini, il documentario per fortuna non è la solita agiografia («quant'era brava, quant'era bella») ma si interroga su come quella donna abbia reinventato il teatro e si sia conquistata fama eterna anche con l'unico film interpretato nel 2016, Cenere, ambientato in Sardegna (da un romanzo di Grazia Deledda) ma girato in realtà nelle valli di Lanzo.
Eh sì, perché nei primi anni del 900 Torino era una delle zone dove si giravano più film e dove attori e attrici prendevano residenza e frequentavano i caffè e i ristoranti del centro.
Tra questi c'era anche Francesca Bertini, la prima che ebbe la possibilità di imporre i propri capricci in virtù dell'enorme popolarità raggiunta (ad esempio, alle cinque del pomeriggio in punto lei interrompeva qualsiasi ripresa per prendere il tè con le sue amiche).
La Bertini è di fatto la protagonista del saggio che i due studiosi Caterina Taricano e Silvio Alovisio hanno dedicato al regista che l'attrice preferiva, quel Roberto Roberti che altri non era se non il padre di un certo Sergio Leone (che infatti, quando deve prendere uno pseudonimo per fingere che il suo primo western batta bandiera a stelle e strisce si firma Bob Robertson).
In La cavalcata dei sogni, il libro edito da Kaplan adesso in uscita e che racconta il convegno svoltosi alle Serre di Grugliasco, si racconta con dovizia di particolari e di approfondimenti il legame che intercorse tra i due.
E da questi approfondimenti si percepisce il motivo per cui Bernardo Bertolucci insistette tantissimo perché la Bertini accettasse di partecipare al suo capolavoro Novecento ricoprendo il ruolo di un'anziana suora: anche per Bernardo, infatti, il cinema era mito e memoria, che è poi il motivo per cui oggi, contemporaneamente, sono tornate d'attualità Diana, Eleonora e Francesca , icone di un tempo lontano che hanno ancora tanto da dirci.
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