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Marco Giusti per Dagospia
"La pelle che abito" di Pedro Almodovar. Non abbiamo smaltito i film di Venezia che ci tornano sul groppone quelli di Cannes. Vatteli a ricordare... Per fortuna se li ricordano per noi Paolo Mereghetti e Curzio Maltese. Che lo trattano malamente. "Non fosse di Almodovar ma di un esordiente qualunque, si sarebbe tentati di liquidarlo in due parole...", scrive il primo. "Se ogni tanto dormiva il grande Omero, è comprensibile che anche un genio come Pedro Almodovar si conceda un riposo" scrive pomposamente il secondo (per Maltese o sei Omero o sei un Aldo Cazzullo qualunque), ancora in estasi per Sorrentino e Moretti.
Ora, la stampa estera si è espressa in maniera un po' diversa. "Posso solo dire che sono rimasto attaccato alla sedia dall'inizio alla fine", scrive Peter Bradshaw del âGuardian'. "Non per tutti, ma di gran livello. L'horror dell'anno", scrive Kim Newman di âEmpire'. Anche i critici più cattivi non riescono a non apprezzarlo ("E' molto, molto stupido, ma anche molto divertente", "Più che un film da amare è un film da consigliare agli amici").
I francesi, ovviamente, lo esaltano, per la sua sobrietà e per il suo accanimento monomaniacale cinefilo, visto che, a parte gli omaggi all'artista americana Louise Borgeois, è una specie di rilettura dei grandi classici di medicin-fiction del cinema, da "Gli occhi senza viso" di Georges Franju a "Gli inseparabili" di Cronenberg.
Ora, è vero che a Cannes il pubblico dei critici internazionali rimase un po' freddo in sala alla fine del film, forse perché Almodovar non affrontava i grandi temi tromboni di Malick ("The Tree of Life") o la fine del mondo come Lars Von Trier ("Melancholia"), e non offriva per il ritorno di Banderas nel suo clan un ruolo da primadonna, ma il film scorreva giù perfettamente.
E, malgrado quello che se ne era sentito, il grande colpo di scena centrale, che non vi dirò, funzionava perfettamente. O, almeno, io c'ero caduto in pieno. Tratto da un romanzo noir-horror di Thierry Jonquet (da noi si chiama "Tarantula"), è più o meno un mischione tra una grande storia d'amore per una morte, la moglie di Banderas, e la sua follia da chirurgo plastico.
Ma è anche un ârevenge movie', un piccolo noir alla Joseph H. Lewis di gran perfezione. Preso per quello che è, e quindi fuori dall'idea che Almodovar debba trattare solo grandi temi come la pedofilia nella Spagna di Franco, "La pelle che abito" è un bellissimo noir con attori magistrali. Erano anni che non vedevamo Banderas senza piacionismi hollywoodiani, il capello lisciato, e quell'aria da Zorro del 2000. Meglio invecchiato, preciso, quasi non bello.
Marisa Paredes è perfetta come madre-domestica che accudisce Banderas nella sua follia. E Elena Anaya, già spaventata a morte nell'horror spagnolo "Fragile", ultimamente nuda e lesbica in "Room in Roma" di Julio Medem, è l'eroina di questo film trans-testuale, come lo definisce Jean-Marc Lalanne su "Les Inrock".
Alle prese con il nuovo horror spagnolo, così minimale e riuscito, Almodovar torna nella mischia con un film molto più attento di come sembra, cercandosi di togliersi la pelle del cinema autoriale degli ultimi anni per arrivare a un'essenza, anche di genere, dei suoi inizi. Per lui e per tutto il suo cast è una specie di rigenerazione. Da non perdere.
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