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Valerio Cappelli per www.corriere.it
La gioiosa follia del canto? A Daniela Barcellona capita di tirare di scherma in salotto e, posato il fioretto, di afferrare il mestolo e preparare la cena. La sua «specialità»? Fingere sulla scena di essere un uomo. Non è solo il mezzosoprano che canta ovunque, la voce di Rossini: è la regina dei ruoli en travesti: «Ne ho una ventina in repertorio». In Semiramide, che sta per uscire in cd , deve fare un doppio salto di genere. Perché il «lui» che interpreta, Arsace, stava per sposare sua madre.
Arsace, bella capriola…
«Torna in patria, chiamato dalla madre: lei non riconosce il figlio, lui non riconosce la madre. L’incesto, l’ambiguità, non manca nulla».
Una domanda da uomo a quasi uomo, lei è se stessa nei panni maschili?
«No, non posso avere svenevolezza e malizia, e c’è un grande dispendio di energia mentale. E la fisicità è diversa, si usano muscoli diversi. Ho dovuto imparare a camminare e a muovermi da uomo. Hai bisogno di sentire la gravità sul pavimento, di essere più stabile. Alla mia prima Semiramide mi misero dei pesi alle caviglie e dopo tanti anni di danza classica…».
Chi l’ha aiutata?
«Pier Luigi Pizzi e i registi anglosassoni, col loro approccio cinematografico. Mi ispiro a Glenn Close in Albert Nobbs dove è un uomo, e a Kenneth Branagh, l’eleganza, la gestualità mai esagerata. Mi è servito Il Gladiatore, anche se non ha nulla di rossiniano».
Gli abiti?
«Bé, indosso giacca e cravatta, porto corazze. In un Sigismondo ambientato in un ospedale psichiatrico mi misero un camice bianco, se non altro è neutro. Con le parrucche risulto sempre essere un po’ femminile. Il problema è la barba. Lì mi sento davvero strana, quando esco dal camerino non mi riconoscono e non mi salutano più: mi fissano con un’aria: chi è questo?».
Da uomo avrà tanti duelli.
«Andai da un istruttore di scherma per la Lucrezia Borgia alla Scala, con mio marito Alessandro Vitiello, che fu mio insegnante di canto, mi allenavo col fioretto in casa. La sera tornavo ai fornelli».
I fan dei ruoli en travesti?
«Ci sono, alcuni diventano amici di famiglia. Un’avvocatessa, una scrittrice, un addetto all’aeroporto che si mette in ferie per seguirmi…».
Giulio Cesare di Händel, il capo del mondo en travesti, concetto forte da dominare.
«Tanta gente meno dentro al teatro va per il titolo, quando vedono che una donna canta da uomo li vedi disorientati, non se lo aspettano. In passato una donna non poteva fare teatro, ci sono bravi colleghi controtenori più vicini al gusto dell’epoca. A Rossini non piacevano i castrati (per cui scrisse un solo ruolo), trovava più espressiva la voce di donna come uomo».
L’importante è essere credibili.
«Per quanto mi riguarda, io sognavo di diventare tenore. La mia carriera è stata una battaglia, gli inizi furono duri, le audizioni non andavano mai bene, una volta mi dissero che avevo la voce monocorde. Mio padre era carabiniere, in casa uno stipendio solo, eppure mi ha sempre aiutata.
Per racimolare qualche soldo cantavo nel coro di Trieste, da adolescente ai matrimoni, avevo un’estensione vocale che potevo fare la Regina della notte di Mozart, l’organista si emozionò e sbagliò le note, con un accompagnamento molto moderno. Fu il Rossini Opera Festival a lanciarmi: Pesaro, 1999, Tancredi, regia di Pizzi. Il finale tragico, sublime, travolgente, dove tutto si spegne, la vita, la voce, l’orchestra, le luci in sala. Ora, dopo sette anni, torno al Rof».
Altro giro en travesti, Orfeo e Euridice con Muti.
«Successe una cosa incredibile, per un calo di tensione la luce si abbassò, lui creò all’istante qualcosa di più etereo, ci capimmo senza parlarci, con uno sguardo».
Con Riccardo Muti riaprì la Scala, L’Europa Riconosciuta, ancora un ruolo da uomo.
«Isseo. Muti mi mandò lo spartito quasi due anni prima con i segni in cui spiegava ciò che voleva. Lui prima studia e poi insegna. Il Maestro. Nulla viene lasciato al caso, epperò crea al momento. A Salisburgo mi chiamò per una recita di Aida per il ruolo di Amneris, che canterò di nuovo in marzo al Teatro Real di Madrid».
Finalmente una donna.
Ride: «Sì! Come sempre io gli davo del lei, mentre lui una volta dice: Dimmi Barcellona, dopo aggiunge: Mi dica Daniela». Dal tu al lei, all’opera anche le parole si travestono.
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