RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Aldo Cazzullo per il ''Corriere della Sera''
Achille Lauro, chi è lei davvero? Porta il nome di un leader monarchico, a Sanremo è diventato san Francesco, David Bowie, la marchesa Casati Stampa, la regina Elisabetta I...
«Il palco del festival è talmente importante che mi pareva giusto usarlo. Volevo portare una canzone che fosse anche un’opera teatrale, un live in quattro minuti. Non volevo solo farla ascoltare, ma farla vedere. Uno pensa: questo è pazzo. In realtà, ogni canzone ha un colore. Si tratta di vestirla».
Il titolo, «Me ne frego», fu uno slogan fascista.
«Ma la canzone non c’entra con la politica. Non significa “non mi interessa”, significa facciamolo, viviamolo. È il racconto di una relazione d’amore, e dell’evoluzione di un personaggio. San Francesco ha rinunciato alla ricchezza per vivere una vita povera e libera...».
San Francesco non vestiva Gucci.
«È una scena di svestizione. Ci siamo ispirati all’affresco di Giotto in cui il santo si libera del mantello. È vero che i vestiti sono Gucci, opera di Alessandro Michele: un personaggio settecentesco; non un business man, un genio, cresciuto come me nella periferia di Roma, a Val Melaina. Ma il progetto è mio e del gruppo che lavora con me. La marchesa Casati Stampa ha ispirato poeti come d’Annunzio, è stata una mecenate che ha rinunciato alla vita privata per diventare un’opera d’arte vivente. Anch’io volevo usare il corpo come una tavolozza, darlo all’arte, diventare un quadro sul palco di Sanremo».
E Bowie?
«Ziggy Stardust, la figura che ho interpretato, era uno dei suoi alter ego. Esprime il rifiuto degli stereotipi sessuali».
Un altro momento-cult è stato il suo bacio con Boss Doms. Lei è etero, gay, fluido?
«Questo lo lascio al caso».
Nella serata finale è stato Elisabetta I.
«Una grande regina, che morì per il popolo, per un’idea. Volevo diventare una donna sul palco, estremizzando, esagerando con gli indumenti femminili, come faceva Elizabeth per confrontarsi con gli uomini: la gonna era così larga che è stato difficile togliersela a tempo. Ovviamente erano ibridi, personaggi da reinventare; non è Tale e quale show».
I Pinguini tattici nucleari hanno chiuso la loro cover con «Rolls Royce», la sua canzone dell’anno scorso.
«È stato il secondo momento più figo del festival».
E il primo?
«Morgan che improvvisa il testo: “La tua brutta figura di ieri sera...”».
Nel 2019 lei è sopravvissuto a un duetto sanremese con Morgan. Come ha fatto?
«Non è stato facile: non avevamo provato, ci siamo scambiati gli interventi, ognuno ha cantato un pezzo dell’altro, la canzone si è composta come una jam-session... Morgan è un grande artista, ha grande cultura musicale».
Di lei è stato scritto tutto e il suo contrario: che è nato a Verona e che è nato a Roma, che ha avuto un’infanzia difficile e che viene da una famiglia altoborghese. Qual è la verità?
«Non mi è mai mancato nulla. Mio padre si chiama Nicola De Marinis, è stato professore universitario e avvocato, ha scritto quattro libri, per meriti insigni è diventato consigliere della Corte di Cassazione. Nonno Federico era prefetto di Perugia, l’altro nonno ha combattuto nella seconda guerra mondiale: si chiamava Archimede Lauro Zambon. Sono nato a Verona perché lì abitava la famiglia di mia mamma, Cristina, originaria di Rovigo, ma sono cresciuto a Roma».
Sua mamma cosa faceva?
«Ha dedicato la vita agli altri. Casa nostra era sempre piena di ragazzi presi in affido. Sono sempre stato abituato a condividere».
Qual è il suo primo ricordo?
«La musica. Papà che in macchina canta Una carezza in un pugno: “A mezzanotte sai che io ti penserò, ovunque tu sarai sei mia...”. Mia cugina Giulia, lei 15 anni io cinque, che ascolta Back for good dei Take That. E Anna Oxa con i pantaloni bassi e i capelli piastrati che a Sanremo canta Senza pietà. Per il festival la famiglia si riuniva davanti alla tv, come a Natale».
Poi la famiglia si divise.
«Ci fu una crisi. Però mamma per noi c’è sempre stata. Con mio fratello Federico, che ha cinque anni più di me, andai a vivere in una comune, a Val Melaina, Montesacro. Il collettivo si chiamava Quarto Blocco, c’erano altri venti ragazzi: chi scriveva, chi dipingeva, chi incideva musica a torso nudo... Così ho iniziato a scrivere, disegnare, incidere. Ora anche a dipingere».
achille lauro con il copricapo di gucci
È stato scritto che lei spacciava, rubava i motorini, avrebbe pure rapinato un supermercato.
«Cos’è, un’indagine?».
È un’intervista.
«Su di me circola una leggenda nera, inventata da gente che ha interpretato alla lettera il mio primo libro, Sono io Amleto, che in realtà è una biografia romanzata. Ne sto scrivendo un altro, La storia di una notte, in cui sono innamorato di un ricordo. Non si è mai innamorati di quel che si ha; si è sempre innamorati di quel che non si ha più».
Com’è andata davvero?
«Nelle periferie la droga esiste. Far finta che non esista è più sbagliato che parlarne. È una piaga sociale che non va nascosta: ne va dato un giudizio negativo. Non posso dire che queste cose non le ho mai viste; al contrario, le conosco, e cerco di aiutare le persone a non distruggere la loro vita. Vengono a intervistarmi e poi scrivono “Lauro spaccia”, al presente, “Lauro ruba”, al presente. Sono cresciuto in un ambiente difficile, in mezzo a persone problematiche. Ma Sanremo è il frutto di quindici anni di impegno. Se avessi buttato il tempo in queste sciocchezze non sarei qui. Canto per dire ai ragazzi di non sprecare il loro tempo: prima capisci quello che vuoi fare, prima arrivi al successo. E il successo non è la fama; è la riuscita del proprio percorso».
Com’è il suo percorso?
«Ho visto per tutta la vita i miei farsi il culo e non riuscire, mio padre spaccarsi la schiena senza avere quello che gli spettava, mia madre fare lavoretti saltuari umilianti. Da questo è nata la mia ambizione. Ho suonato davanti a tre persone. Ho pagato di tasca mia la sala del primo concerto, 300 euro per lo Zoobar di Roma. Per anni non ho dormito, per creare tutto questo. Proprio quando ero stanco, a un certo punto tutto si è messo a posto, sia la mia vita sia quella dei miei».
È vero che ha ricomprato i gioielli di famiglia?
«Sì. I gioielli di nonna Flavia. Li ho riscattati dal monte dei pegni».
È stato anche in galera?
«No. Pure questa voce fa parte della leggenda. Ho avuto abbastanza amici incasinati da capire quello che non volevo diventare. Amici reduci da dipendenza o da sbagli adolescenziali, che entravano e uscivano per cose fatte da ragazzini. Il carcere non è il posto giusto per recuperare i ragazzi. Per loro facciamo molto di più io e quelli come me».
«Rolls Royce» è stata interpretata come la celebrazione della droga, e dei morti per droga.
«Nulla di più falso. Il titolo evoca una frase di Marilyn Monroe: preferisco piangere sui sedili di una Rolls Royce che nel vagone di una metropolitana. La Rolls è un simbolo, un’icona».
Chi c’era nella sua comune?
«Graffitari, street-artist. Frequentavo Jacopo Pividori, che fa tele stupende, e Gemello, il rapper, che si chiama in realtà Andrea Ambrogio. È stato un vantaggio stare in mezzo a ragazzi più grandi. Non avevamo il cellulare; ci chiamavamo al citofono. Non pensavamo alla foto da postare, ma al gesto, al messaggio. Oggi non penso mai “guarda che bella scarpa che ho”, ma a quel che sto comunicando».
Così lei ai concerti chiede di spegnere il telefonino.
«Nelle mie canzoni ci sono la solitudine, il vuoto, l’abbandono che ho conosciuto. C’è un grido d’aiuto. C’è il burrone, l’autoanalisi, l’introspezione. Siamo cresciuti insieme, anzi ci siamo cresciuti l’uno con l’altro, per strada, mettendo tutto in comune, idee, aspirazioni. Per questo ho intitolato un disco Ragazzi madre».
Lei ha figli?
«Li ho schivati».
È stato a scuola?
«Sono stato in tutte le scuole. Almeno dieci. Mi cacciavano, me ne andavo, non ci andavo. Nella stessa classe trovavi i ragazzi di periferia e quelli di corso Trieste, chi non aveva nulla e chi aveva in casa il pianoforte a coda; e questa contaminazione è positiva. A Montesacro è nato Claudio Baglioni, qui Rino Gaetano è cresciuto e si è schiantato in macchina. Andare nel centro di Roma era come andare in vacanza».
Quanti tatuaggi ha?
«Innumerevoli».
Qualcuno ha un’importanza particolare?
«Quelli fatti e condivisi con altre persone. Li ho fatti tutti da pischello, sulle brandine. È tanto tempo che non mi tatuo».
Perché si chiama Achille Lauro?
«Era il mio soprannome. In realtà mi chiamo Lauro, un antico nome veneto, che suona un po’ ostico».
È vero che i suoi dischi nascono da grandi riunioni in un luogo segreto, tipo quelle dei Rolling Stones?
«Sì. Loro si ritrovavano in una villa nel Sud della Francia, noi in un villaggio perduto in una riserva naturale. Ci sono molte case, c’è un viavai di centinaia di persone, da Coez ad Anna Tatangelo...».
La Tatangelo?
«Ci stimiamo; da adolescente ascoltavo Ragazza di periferia, da grande l’ho rimixata con lei. Trascorro lì due mesi, e non vorrei mai andarmene. Il mio gruppo ristretto di lavoro è di quindici persone: ognuno porta il suo tassello, dal suono al trucco. Cerchiamo di creare qualcosa di nuovo, libero dall’influenza delle mode. Qualcosa che resti».
Al tempo della rete che cancella il passato, lei ne ha l’ossessione. Cita nella stessa strofa Elvis, politicamente un reazionario, e Hendrix, un rivoluzionario. Un suo disco si intitola «1969». Perché?
«In quel disco c’erano batterie elettroniche, c’era l’estetica degli anni 70. Ma se ripenso alla musica degli anni 90, alla dance che ascoltavo da piccolo, rivivo emozioni tanto forti che mi lasciano un velo di malinconia. Il tempo è ciclico: tutto si ripete. Mi ispirano Jim Morrison, che ha cambiato una generazione; Pasolini, che ha raccontato storie vere, come in piccolo cerco di fare io; ma anche Madonna, Mia Martini, Renato Zero. Renato sì è stato coraggioso, a giocare con i generi e le identità, 40 anni fa».
Che cos’è il coraggio per lei?
«C’è il coraggio dell’eroe, o del chirurgo. E c’è il coraggio di essere chi vuoi essere, di fare quel che vuoi fare. Di fregartene di quel che il mondo pensa di te».
Vasco sui social posta le sue immagini, bacio compreso. L’ha incontrato?
«Di sfuggita. Mi è sembrato una persona dolcissima. Il vero genio è sempre umile, insicuro. Si chiede: la mia opera sarà un successo? Il quadro non è mai finito».
Segue la politica?
«Poco».
Vota?
«Poco».
Di Salvini cosa pensa?
«Sono stato attaccato per aver difeso i migranti. Ma l’uomo è fatto per aiutare gli altri; prima o poi tutti avremo bisogno di aiuto».
Com’è la Roma di oggi?
«Resta bellissima, ma solo per i privilegiati. In periferia non c’è molta criminalità; c’è molto disagio. La gente è nelle mani del Signore. Si percepisce un senso di abbandono, di decadenza che per me è arte. A Roma nascono le cose, a Milano partono. Ora vivo a Milano, che è il luogo dell’innovazione, delle persone che credono e investono nelle idee. Qui spunta l’albero. Ma il seme nasce dalla decadenza di Roma».
Se qualcuno le chiede un selfie, lo fa?
«Certo. Io mi do tutto, sempre. Ma preferisco una stretta di mano e due chiacchiere. O il ragazzetto che ti porta il suo disco, come a dire: esisto anch’io, ci sono. Le foto sono nate per immortalare cose belle; ora sono diventate un esame. Per questo suggerisco la posa inespressiva...».
Un altro suo disco si intitola «Dio c’è». Crede in Dio?
«Totalmente. Non mi appoggio alla religione standard, ma credo in qualcosa di superiore. Come potrei, proprio io, non credere? Dopo essere passato da situazioni assurde? Sarebbe un’offesa a tutto quello che ho».
Come immagina l’aldilà?
«Non ne ho idea. Ma penso che nulla sia in balìa del caso».
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