HO PROVATO TUTTE LE DROGHE E HO PAGATO LE CONSEGUENZE, SMETTERE È STATA UNA SCELTA DI DIGNITÀ” – EUGENIO FINARDI MEMORIES: “L’ESERCITO USA VOLEVA ARRUOLARMI PER ANDARE IN VIETNAM. AVREI DOVUTO INTERROGARE I VIETCONG. RIFIUTAI” – “GLI ANNI DI PIOMBO? GLI AUTONOMI MI ACCUSAVANO DI ESSERE UN VENDUTO. RICORDO UN CONCERTO CON LA PFM NEL PALASPORT DI PADOVA. HANNO PRESO UN AUTOBUS E SFONDATO LA PORTA. AVREBBERO POTUTO AMMAZZARE DECINE DI PERSONE” – “SANREMO? UNA VOLTA HO PASSATO MEZZ’ORA CON LA FARFALLINA TATUATA DI BELEN IMPATACCATA AL NASO PERCHÉ CELENTANO ANDAVA LUNGO NEL MONOLOGO. TU DIRAI: LA MEZZ’ORA PIÙ BELLA DELLA TUA VITA: SÌ, SE NON…” - VIDEO

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Estratto dell’articolo di Pier Luigi Vercesi per il “Corriere della Sera”

 

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Eugenio Finardi, dal Movimento al Pci a Parco Lambro, passando per Sanremo. E oggi cantore dell’intelligenza artificiale. In 50 anni non ti sei fatto mancare nulla.

 

Ma c’è una canzone che ti rappresenti veramente?

«Difficile trovarne una che ti rappresenti, perché tutti noi conteniamo moltitudini, come dice Walt Whitman. Se proprio vogliamo trovare una canzone che sia una metafora della mia vita artistica allora dico: Extraterrestre . Quando la canto nel 1978 è un flop totale. Mi tirano i sassi, dicono che sono un traditore. È la storia di due miei amici che sognano sempre di essere da qualche altra parte. Attraverso di loro cerco di mettere in musica l’impossibilità di scappare da se stessi nel momento in cui la deriva violenta sta tradendo i nostri sogni.» […]

 

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Ci devi spiegare com’era quell’Italia di cui parli.

«La mia era una Milano particolare. Mia madre, americana, venne in Italia nel 1948 per studiare alla Scala. Si innamorò di mio padre, un dirigente che veniva da una famiglia di musicisti; sapeva che quello era un mestiere difficile e mai avrebbe voluto che anch’io lo facessi. Per di più, mio nonno era morto a un concerto di mia zia. Così, per scaramanzia, papà non assistette mai, da seduto, a una mia performance. Nel ’52 nasco io. Il nostro appartamento è un ritrovo della comunità americana.

 

Cathy Berberian, la mezzosoprano moglie di Luciano Berio, è di casa. Si cena con John Cage, Demetrio Stratos, Nanni Balestrini, Gianni Sassi. È nello studio di Sassi che incontro per la prima volta, nel ’71, Franco Battiato. Sono lì il giorno in cui producono la pubblicità della B&B con Franco vestito da bandiera americana sprofondato in un sofà con sotto la scritta: “Non avete mai visto un divano?”. Battiato stava diventando per molti un centro di gravità permanente. E io cominciavo a capire chi ero. Ma ce n’è voluta…».

 

[…]  Dovevi andare in Vietnam?

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«Avevo la doppia cittadinanza. Nel ’71, per fortuna, non ero stato sorteggiato per andare a combattere, però la Military Intelligence Agency aveva i miei test attitudinali e, sapendo che parlavo il francese, spedirono il console di Milano ad arruolarmi. Avrei dovuto interrogare i vietcong. Rifiutai».

 

Hai anche rischiato di deragliare…

«Ho deragliato in tutti i modi possibili. Ho provato tutte le droghe e ne ho pagato le conseguenze».

 

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Come ne sei uscito?

«Ci sono entrato come tutti, era facile, si faceva. C’è anche da dire che sono sempre stato trattato con sostanze. Da piccolo, come molti bambini americani, mi davano la pillolina perché ero iperattivo. Hanno smesso di darmela a 14 anni e a 16 l’ho sostituita con le canne. Di eroina si moriva per overdose, ma io ho avuto più amici morti per cocaina o per abuso di alcol. Finché mi è nata una bimba con la Sindrome di Down…».

 

Ti ha salvato la responsabilità nei suoi confronti?

«Più che di responsabilità parlerei di dignità. Sono entrato in comunità e ho fatto il percorso terapeutico».

 

Torniamo agli Anni di Piombo. Come ti collocavi?

«Per me gli autonomi erano come la loro controparte. Non a caso l’Autonomia mi ha processato infinite volte».

 

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Di cosa ti accusavano?

«Ero un venduto al sistema. La musica doveva essere gratis. Ricordo un concerto con la PFM nel Palasport di Padova. Hanno preso un autobus e sfondato la porta. Avrebbero potuto ammazzare decine di persone. La prima tournée dal vivo la faccio con Fabrizio de André. Gli chiedo perché ha scelto me, e lui dice che ha bisogno di un cantautore di assalto che svuoti dei sassi le tasche dei ragazzi».

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Così, alla fine, tradisci davvero: vai a Sanremo.

«Sì, nel 1985. Però la prima volta sono stato obbligato dal contratto con la Fonitcetra: il management si riservava di decidere tre presenze dell’autore. Pensavo fossero le fiere del disco, invece mi ritrovo a Sanremo. Presenta Pippo Baudo. Sono così suonato che mentre salgo sul palco mi accorgo di avere giù la lampo dei pantaloni. Mi giro per tirarla su, Pippo dice: “Perché hai fatto quella mossa?” Alla sprovvista rispondo: “Portafortuna!”. “Allora rifalla!”».

 

Così hai dovuto rifarlo spesso…

«Ci sono dei momenti surreali in questo lavoro, più che sui palchi, nei camerini. Mi è capitato di suonare sul sagrato della basilica di Sant’Antonio a Padova e mi hanno fatto cambiare nel reliquiario. Mi sono trovato in mutande davanti alla laringe del santo. A Sanremo, la scalinata è fantastica, però si sale da una terribile scaletta a chiocciola. La seconda volta che ci sono andato, questa volta per mia decisione, ho passato mezz’ora su quella scala con la farfallina tatuata di Belen impataccata al naso perché Celentano andava lungo nel monologo. Tu dirai: la mezz’ora più bella della tua vita, sì, se non stesse parlando Celentano».[…]

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