DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” -Estratti
FABIANO FABIANI IN UN DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI
La sua faccia ricorda un antico volto etrusco. Essendo nato 94 anni fa a Tarquinia, zona di necropoli e di reperti archeologici, l’accostamento è fin troppo facile. Meno facile è riuscire a riassumere la lunga vita professionale di Fabiano Fabiani: «In Rai mi chiamavano “l’etrusco”. Prima di finire a Roma ho vissuto a Tarquinia, e frequentato le scuole a Volterra.
(...)
Non proprio una lezione di storia, ma qualcosa che si avvicini a un resoconto fedele di un’Italia a cavallo tra gli anni Cinquanta e primi Ottanta, dominata dalla Democrazia cristiana. Lei ha un passato democristiano?
«Sono stato vicino ai democristiani di sinistra. Mi definirei un animale politicamente anomalo».
Cattolico?
«Anche. Potevi essere cattolico senza essere democristiano. Ma non viceversa».
La politica che si sposava con la religione.
ettore scola fabiano fabiani eugenio scalfari
«Neanche tanto. Quel connubio, per fortuna, non ha prodotto teocrazie».
Ma clericalismo sì.
«Non a caso ero vicino ai democristiani di sinistra».
Qual era la differenza tra un Dc di destra e uno di sinistra?
«I primi erano notoriamente più chiusi, meno disponibili ad accogliere o a tener conto delle trasformazioni sociali».
La sua televisione ne teneva conto?
«Ho vissuto in Rai per 25 anni e molto di quello che ho fatto e deciso ha tenuto conto del modo in cui la società italiana stava mutando».
Perché ha scelto di lavorare in televisione?
«Mio padre voleva che diventassi ingegnere, la mia ambizione era il giornalismo. Cominciai appena ventenne con una collaborazione allaVoce repubblicana ero il vice responsabile prima di una rubrica di critica teatrale e poi cinematografica. In precedenza avevo collaborato alMarc’Aurelio. Mi ci portò il mio amico Ettore Scola».
Era una palestra irriverente. Lei non dà questa idea.
«Con Ettore, compagno di classe e di banco al liceo, ci siamo scambiati molti pensieri irriverenti».
Voleva anche lei fare cinema?
«A me il cinema piace vederlo. Per farlo ci devi essere portato. Scola era un predestinato. La mia strada, come le dicevo, era il giornalismo. La Rai mi offrì l’opportunità di unire la passione per le immagini con la cronaca. Entrai, dopo un concorso, nel 1955».
Andò al Tg?
fabiano fabiani e la moglie lilli foto di bacco
«No, conobbi, è vero, il primo direttore del telegiornale, Vittorio Veltroni, padre di Walter: un cronista di razza che sapeva guardare al futuro. Purtroppo il futuro gli riservò un destino tragico, perché l’anno dopo morì per una leucemia fulminante. A quel tempo mi occupavo di documentari».
C’era già Ettore Bernabei?
«Arrivò nel 1960 sotto il governo guidato da Amintore Fanfani. Il quale oltre alla nomina di Guido Carli alla banca d’Italia, mise Bernabei alla direzione della Rai. Fu quest’ultimo a nominarmi direttore del telegiornale nel 1966. Avevo 36 anni».
Com’erano i rapporti tra voi?
«Sospetto che voglia chiedermi se interveniva pesantemente sul mio operato. Le rispondo no».
Forse non ce ne era bisogno.
«Forse l’autocensura precedeva la censura, la verità è che interagendo frequentemente c’era molta sintonia. Ci davamo del lei. Mi telefonava tutti i giorni tra le cinque e le sei del pomeriggio. Si faceva riassumere i fatti del giorno, come li avrei esposti e in che ordine. Era raro che desse dei suggerimenti e mai l’ho sentito censorio».
fabiano fabiani con la moglie lilli foto di bacco
Eppure è noto il peso che Bernabei ha avuto nell’allontanamento di alcuni personaggi considerati scomodi o non in linea con il dettato fanfaniano.
«Riguardarono soprattutto il varietà. Ci furono casi che coinvolsero personaggi come Tognazzi e Vianello».
Ma anche Dario Fo.
«Certo, anche Fo e altri ancora. Bernabei voleva una televisione che fosse il baricentro del paese. Senza scosse. Voleva liberarla dal gruppo di potere torinese per il quale la televisione era una radio con le immagini. Per Bernabei la televisione doveva essere un mezzo autonomo, dotato di un proprio linguaggio: popolare e non elitario».
(...) Lasciai la direzione nel 1969».
Lasciò perché?
«La situazione era politicamente complicata. Il Sessantotto stava cambiando i connotati della società italiana e non solo di questa. Ricordo la forte incazzatura di Saragat, allora presidente della Repubblica, per un servizio di Furio Colombo sulla guerra in Vietnam, dove per la prima volta si documentava l’uso del napalm da parte degli americani».
Perché Saragat se la prese?
«Perché era a pranzo con l’ambasciatore mentre Tv7 trasmetteva il servizio. Si sentì probabilmente in imbarazzo, o in difficoltà. Gli americani non ne uscivano bene».
So che lei non ha amato il Sessantotto.
«Era disordine che produceva altro disordine. In quel clima caotico ci fu un gruppo di redattori del mio Tg, guidato da Enzo Forcella, che decise di fare degli incontri redazionali fuori dall’ambito di lavoro. A me sembrava un po’ una pazzia. Questo, per dire, il clima di allora».
(...)
Torniamo a lei.
«Nel ’69 lasciai la direzione del Tg. Ci fu una trattativa con Bernabei che per me immaginò un ruolo che non esisteva nell’organigramma dell’azienda: segretario generale. Era un passaggio professionale da giornalista a manager».
Le stava bene?
«Mi stava bene, sì. Ma sorsero delle complicazioni. Gianni Granzotto, presidente della Rai, si oppose all’ordine di servizio di Bernabei. Ci fu uno scontro violento tra i due. Fu così che, tornando da Piazza del Gesù, dove aveva sede la Democrazia cristiana, Bernabei mi disse di essere desolato perché i dorotei, una corrente della Dc, si erano opposti».
A quel punto?
«Fu laconico: Fabiani si cerchi un altro posto. Il posto ce l’ho come direttore, risposi brusco».
E lui?
«Lei, Fabiani si sta montando la testa. Lei vuole i comunisti al governo. Io voglio servire nel modo migliore questa azienda, replicai. A quel punto mi proposero il ruolo di direttore centrale della Radio. Rifiutai dicendo che non era mia intenzione finire alla Caienna. Cosa che offese il direttore Leone Piccioni. Alla fine trovammo un accordo: mi fu offerta la direzione dei programmi culturali e finalmente accettai».
La televisione aveva contribuito tra gli anni Cinquanta e Sessanta all’innalzamento culturale del paese.
«Ebbe un ruolo fondamentale nell’accompagnare il passaggio da un mondo prevalentemente contadino a quello industriale. Ci furono trasmissioni come quella del maestro Manzi che contribuirono all’alfabetizzazione degli italiani. Nel mio nuovo incarico dovevo affrontare e interpretare una società completamente cambiata. Ne tenni conto senza perdere l’identità originaria».
Cosa intende?
«Su un punto Bernabei ha sempre avuto ragione: la televisione è popolare o non è. Portai gran parte della squadra che aveva lavorato con me al telegiornale e dissi pressappoco questo: dobbiamo coinvolgere scrittori, compositori, registi e proporgli noi il “format”. Fu così che iniziò un viaggio dentro la musica popolare con Luciano Berio, mandammo Moravia a girare un documentario inAfrica, Antonioni in Cina, Flaiano in Canada. Pasolini realizzò un documentario bellissimo sulle mura di Sana’a nello Yemen, commentate da lui».
A proposito di “popolare” fece anche una “Vita di Gesù” con Zeffirelli.
«Fu una coproduzione con gli inglesi. A dire il vero, all’inizio proposi Bergman. Mi piacevano i suoi film. Chiesi un’entratura a Fellini e ottenni un appuntamento a Stoccolma».
Vi vedeste dove?
«In un ristorante. Avevamo già avuto uno scambio di idee per lettera. Si presentò con una quindicina di paginette dove aveva messo a punto non la storia della vita di Gesù ma i giorni della “Passione”. Chiesi perché? Mi rispose che lì, in quel dramma, c’era il vero Gesù. Alla fine quelli che misero i soldi decisero di affidare la regia a Zeffirelli».
Tutto sommato videro giusto.
«Fu appunto un Gesù popolare. Una volta, incontrandomi, Zeffirelli disse: ma sai che palle se alla fine davi il film a Bergman! Dopo la direzione dei programmi culturali passai alla vice direzione generale. Infine mi fu chiesto di fare il progetto per la nuova Terza Rete».
Scalfari con Lilli e Fabiano Fabiani
E dopo?
«Passai all’Iri. Appena 15 giorni dal mio insediamento mi fu offerta la direzione della Stampa ma rifiutai. Non mi sembrava corretto andarmene».
All’Iri cosa faceva?
«Ero capo delle relazioni esterne. Quando arrivò Pietro Sette, mi mandarono alle Autostrade. Poi sono stato 15 anni in Finmeccanica, ricoprendo vari incarichi fino alvertice. Ma qui entriamo in una storia più economica. Comunque ebbi anche un’offerta alla Mondadori».
In che occasione?
«Dopo la morte di Mario Formenton, sua moglie, Cristina Formenton, pensò a me per prendere il suo posto. Dissi che avrei accettato solo se l’intera famiglia fosse stata d’accordo. A opporsi fu Leonardo Mondadori. E allora non se ne fece niente».
È stato spesso al centro delle strategie di potere?
«Qualche volta mi sono trovato testimone di fatti».
Per esempio?
«Ero molto amico di Cossiga. Quando ebbe l’incarico per un nuovo governo, decise a casa mia chi imbarcare. Ricordo che venne con l’idea di insediare al ministero del commercio Filippo Maria Pandolfi, dopo il pranzo, uscì il nome di Gaetano Stammati».
Com’era Cossiga in privato?
«Grande personalità che nel tempo è diventata imprevedibilità. Intorno a sé voleva soprattutto sardi. Fu un duro colpo per lui la morte di Aldo Moro. Da quel momento cominciò a soffrire di depressioni».
Lei come reagisce alle malattie?
«A 94 anni è una corsa a ostacoli. Fortunatamente la salute non è mai mancata».
È stato amico di Eugenio Scalfari.
«Ci conoscemmo quando ero alla direzione del telegiornale. Lui commentava i fatti economici. È stata un’amicizia lunghissima. Fui io a presentargli Montanelli».
C’era un rituale tra voi che Scalfari chiamava la “cena dei cretini”».
«Ah certo! La definizione fu mia moglie Lilli a darla una volta che eravamo a Capalbio. Poi divenne un appuntamento settimanale in un ristorante romano».
Chi eravate? «Oltre Eugenio e me c’erano Enzo Siciliano, Giorgio Ruffolo, Mario Pirani, a volte Luigi Zanda e immancabilmente Alfredo Reichlin».
Cretini perché?
«All’inizio c’era stato un film francese della fine degli anni Novanta. In realtà adattammo quel titolo all’idea che si potesse con leggerezza scherzare su tutto. Mi mancano quegli incontri. Ma la nostra pattuglia si è di molto assottigliata».
fabiano fabiani saluta lucia annunziata foto di bacco
Come passa le sue giornate?
«Seguendo la Borsa, guardando il tennis di Sinner, leggiucchiando qualche libro e andando con mia moglie ormai a rare presentazioni. Sono ancora un giurato dello Strega».
Come definirebbe la sua vita?
«Felice, molti successi sul lavoro e una bella famiglia».
Perché Fabiano Fabiani?
«Mio padre amava il poeta Aleardo Aleardi e pensò bene di chiamarmi Fabiano».
Tra i due Ettore chi è stato più importante?
«Non ci si lega più di tanto ai propri capi. E Bernabei fu un capo. Scola è stato tutt’altro: la giovinezza che si è allungata nella maturità e prolungata nella vecchiaia. Non potrei mai dimenticarlo».
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