DAGOREPORT – MARINA E PIER SILVIO NON HANNO FATTO I CONTI CON IL VUOTO DI POTERE IN FAMIGLIA…
Anna Bandettini per la Repubblica
Mefistofele non ha nulla di bestiale. Nessuno sguardo satanico, né corna diaboliche, ma è un signore in doppiopetto bianco.
Faust è un adolescente irrequieto in jeans e felpa e Margherita una deliziosa ragazzina in abitino rosso, semplice semplice.
Si preannuncia pieno di sorprese lo spettacolo inaugurale del Teatro dell' Opera di Roma, il 12 dicembre, con il direttore Daniele Gatti atteso sul podio per una partitura apocalittica come La Damnation de Faust, capolavoro di Hector Berlioz, in coproduzione col Regio di Torino e il Reina Sofia di Valencia. Il regista, Damiano Michieletto, ha infatti ringiovanito tutti i protagonisti (a interpretarli saranno Pavel Cernoch, Alex Esposito, Veronica Simeoni, Goran Juric) rappresentando il poema di J.W. Goethe sull' uomo che vende l' anima al diavolo per attraversare tutte le esperienze della vita e essere felice, come il dramma di un tormentato adolescente, inquieto, disperato, in crisi esistenziale e avviato al suicidio.
Solo qualche mese fa, a Berlino, s' era visto Faust nel Terzo Reich, in divisa nazista, firmato da Terry Gilliam, padre dei Monty Python, e due anni fa all' Opera Parigi, come uno scienziato del XXI secolo intento a esplorare Marte, nell' allestimento del lituano Alvis Hermanis.
Ora, la trasformazione in un ragazzino in felpa, jeans e un' aria da sballato è una novità.
«L' ho immaginato così perché, come Faust, oggi sono i giovani quelli che hanno l' ambizione di cambiare, di scoprire il nuovo, di sfidare. Come lui, sono anche più malleabili, perché cercando un senso per la propria vita, possono facilmente essere plagiati. E poi, la degenerazione e la mancanza di prospettiva esistenziale, che sono altri temi di questa opera, sono le stesse di tanti giovani di oggi», spiega il quarantaduenne regista veneto, diventato una celebrità nei teatri lirici europei, già applaudito all' Opera di Roma dove aveva fatto singhiozzare con un Trittico pucciniano due stagioni fa e divertito l' anno scorso con uno stravagante Rossini di Il viaggio a Reims ambientato in un museo.
E sì che, sulla carta, La damnation non avrebbe nemmeno bisogno di regia. Perché a dispetto della carica di teatralità della storia, Berlioz ne fece una "leggenda drammatica", cioè un' opera da concerto, tanto che in questa forma venne eseguita per la prima volta nel 1846. «Effettivamente Berlioz si è preso molte libertà», spiega Michieletto». «Crea per esempio anche un finale con la morte del protagonista, salta alcuni capitoli, si inventa un prologo con una marcia ungherese di cinque minuti che non c' entra granché, solo perché gli piaceva. Questa sua libertà l' ho fatta mia».
D' accordo con Daniele Gatti, con cui aveva già lavorato per La Bohème di Salisburgo con Anna Netrebko nel 2012, Michieletto ha dato un taglio cinematografico alla sua regia usando anche flashback e flash forward, elementi cioè del passato e di ciò che accadrà a Faust: la bara accanto al letto all' inizio, scene in cui si rivede bambino col padre alcolizzato durante il coro dei bevitori. Soprattutto ha cancellato la cornicetta folcloristica delle consuete ambientazioni. «Nessun realismo, né attualizzazione », precisa. «La scena sarà solo uno spazio bianco, astratto, simbolico, da laboratorio clinico, perché Faust è una cavia nelle mani di Mefistofele.
Quello spazio via via diventerà nero come il gorgo che alla fine inghiotte il protagonista. Mefistofele, per me, è la rappresentazione simbolica della distruzione di Faust». Più malefico che diabolico. Anche per questo non si vedranno gnomi, diavoletti o fuochi fatui. L' inferno, dice Michieletto, «non è quello del folklore, ma è qui, è dietro l' angolo. È la perdita di sé di cui tutti possiamo avere esperienza ».
Unica luce nel cupo scenario sarà Margherita. «Il solo personaggio positivo, che vuole aiutare Faust e tirarlo fuori dalla spirale suicida», spiega Michieletto. Margherita è l' antagonista di Mefistofele, colei che lotta contro la degenerazione, contrasta la discesa nel fondo buio dell' anima. «Io ho scelto di non farla morire, un po' perché Berlioz la fa arrivare a metà della storia e a tre quarti è già eliminata Mi pare l' abbia fatta troppo svelta. E poi perché l' opera lirica è piena di eroine che si immolano. Non volevo ripetere il clichè. Margherita è una bella figura. Tenerla in vita è un segnale di speranza. Come se l' azione di questa donna, pur non vincente, non si disperdesse mai».
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