IN QUESTO MONDO DI SQUALI (DELLA FINANZA) - "IL LUPO DI WALL STREET" E "IL CAPITALE UMANO", DUE RACCONTI SULLA FINANZA DEGENERATA, DOVE VIRZÌ CONDANNA UN MALE PRESUNTO, MENTRE SCORSESE ESALTA UN MALE CERTO. NON È NECESSARIO SCEGLIERE

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Danilo Taino per il "Corriere della Sera"

Il mondo è a testa in giù. Lo sapevamo già; ma due film di questo inizio 2014 ce lo sbattono in faccia: davanti al denaro, siamo confusi. Vanno - o dovrebbero andare, o vorrebbero andare: chi lo sa - nella stessa direzione: a mettere in pubblico la faccia brutta, grottesca, volgare della speculazione finanziaria, dei malandrini che si appropriano dei soldi altrui nel vortice d'oro delle case d'investimento e dell'avidità prepotente. Uno è italiano, Il capitale umano di Paolo Virzì, da pochi giorni nelle sale. L'altro è americano, The wolf of Wall Street di Martin Scorsese e si potrà vedere dal 23 gennaio. Diversi e belli. Ma ribaltano la realtà in modi curiosi.

Ambedue hanno a che fare con una specie di «economia libidinale» ma degenerata: dove il desiderio - di denaro, di potere, di sesso, di eccessi - muove i protagonisti ma invece di liberarli li lega a ruoli dai quali possono uscire solo attraverso una disfatta. Il film italiano è un thriller con sottesa una tenue costruzione moralista. L'ambiente è la Brianza, una Brianza «immaginaria», dice Virzì: il quale, però, su questo luogo della fantasia ha ricamato, in interviste precedenti e successive all'uscita del film, fino a trasformare l'accenno in dichiarazione; e a suscitare proteste brianzole, soprattutto leghiste.

Cercava un luogo italiano in cui trasferire la trama del libro che fa da base al film - Human Capital , di Stephen Amidon - e al ricco Connecticut ha sostituito la ricca regione a nord di Milano. Dove sta la Arcore di Silvio Berlusconi, per essere chiari. Gente poco gradevole, nel film: alla ricerca gretta di beni materiali, di apparenza, di scorciatoie per fare soldi facili. Un posto dove non c'è nemmeno un teatro e il protagonista, interpretato da Fabrizio Gifuni, si stupisce che la moglie la consideri una mancanza rilevante.

L'avere spostato, volontariamente o no, la questione sulla Brianza e sulle sue supposte caratteristiche - villone e villette, Suv, mogli trofeo, avidità - innalza film e regista in una posizione di superiorità culturale presunta non nei confronti di un tipo umano con il quale non vorresti andare a cena ma di un territorio e del modello che rappresenta: in fondo di coloro che vivono bene nel capitalismo, avvoltoi o ingenui che siano.

Un'idea poco nuova. Giorgio Bocca la espresse già in un famoso articolo del 1962 parlando di Vigevano, che non è Brianza ma è vicino e ne aveva allora caratteristiche simili: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti, cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una». Un approccio che anche oggi mette una lapide di condanna morale sopra la Brianza o sopra a quella parte di italiani che lavorano per arricchirsi, che è vero si sono fatti la villetta ma nei loro mobilifici hanno anche innaffiato una della parti migliori della cultura industriale.

Tra film e dichiarazioni successive, Virzì finisce con il rimpicciolire la realtà, con il costringere nel cliché un'Italia magari non raffinata ma viva. Scorsese, al contrario, sceglie la grandiosità. Tratto dalla storia vera di un finanziere, Jordan Belfort, che tra gli anni Ottanta e Novanta truffò centinaia di investitori, il film non scende mai di tono per raccontare le menzogne, la cocaina, i sedativi, gli imbrogli, le orge, il trafugamento di capitali, il cinismo della New York della finanza. Belfort (Leonardo DiCaprio) è un gangster senza pistola che attraversa la vita arraffando e bruciando ricchezze e persone.

Però il film ha una maestosità che esalta - certamente senza il volere di Scorsese - la corruzione, che eccita per la trasgressione impunita, che coinvolge nella guerra per il denaro con tutti i mezzi. Un film a tempo di jazz che produce l'effetto contrario a quello di Virzì: alla fine, il pubblico non condanna l'imbroglione, non si disgusta del criminale. Alcune platee newyorkesi hanno applaudito le scene più ciniche, le truffe geometriche, le prevaricazioni. Anche nel film americano, il mondo si è rovesciato.

Virzì giudica; in fondo gli fa piacere fare la morale, dare un contenuto a suo modo politico e culturale all'opera. Quindi deve generalizzare: le due famiglie al centro della narrazione diventano archetipi di una provincia, di un modo di essere della parte del Paese che non gli piace.

È l'intellettuale impegnato: forse si sentirebbe moralmente incompleto se non lo fosse. Scorsese invece descrive, è interessato ai meccanismi della mente di Belfort e alle reazioni che i suoi eccessi provocano negli altri. Rischia di rendere affascinante il mascalzone, si concentra sull'individuo e si ferma prima di dare il giudizio culturale. Modelli diversi di fronte alla ricchezza: uno condanna un male presunto, l'altro esalta un male certo. Non è necessario scegliere.

 

 

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