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Silvia d’Onghia per “il Fatto Quotidiano”
In uno spettacolo che è fatto tutto di canzoni la comicità ha già poco spazio. Se in più consideri che il pubblico dell’Ariston, arrivato lì solo per seguire gli artisti che ama, non vuole sentirsi fare alcun discorso che esuli dal canto, e anzi si arrabbia se glielo fai, comprendi perché i comici a Sanremo non funzionano”.
Dario Fo sta lavorando alla messa in onda su Rai5, a partire da lunedì 23 febbraio, in prima serata, di dieci spettacoli su altrettanti grandi pittori realizzati negli anni, anche con la moglie Franca Rame. Il Nobel per la Letteratura prende spunto dalle infelici battute di Siani e Panariello per affrontare il tema, molto più ampio, della morte della satira, soprattutto di quella politica.
Maestro, perché tira in ballo il pubblico?
Non parlo soltanto di quello di Sanremo. Per avere la possibilità di realizzare una satira e un grottesco degno di questo nome occorre una situazione specifica: avere un pubblico. Se non hai un pubblico le tue boutade, la tua ironia si sfasciano. Anche davanti alle cose più sottili, più raffinate e soprattutto quelle che hanno un rapporto preciso con la cronaca, se non c’è un pubblico preparato e disposto a seguirti, le tue battute vanno a vuoto.
Laddove non c’è cultura, partecipazione di intenti e di interessi, creatività da parte delle masse (come si diceva una volta), l’autore è morto. Come si dice in gergo teatrale, si scampana, non ha elementi per far vibrare la gente, per poter esercitare una meraviglia, una rabbia, un’indignazione.
E questo a Sanremo immagino accada per definizione.
A Sanremo le cose sono messe lì apposta perché non ci sia fremito. Il Festival è fatto di convenzioni accettate, non c’è stupore.
Dunque il suo discorso riguarda soprattutto gli altri ambiti.
Nel teatro un po’ meno, perché c’è una selezione maggiore del pubblico. Ma per esempio nei dibattiti televisivi c’è una deriva verso la noia, anche quando si toccano certi argomenti. L’altro elemento da ricordare è che la grande comicità satirica nasce solo dove esiste la possibilità di vivere una situazione tragica. È la regola dei greci, dei romani, di tutto il Medioevo, della commedia dell’arte. Senza il tragico non c’è il grottesco.
Dario Fo VAFFADAY DI GENOVA FOTO LAPRESSE
Lo vediamo anche nell’andamento di un’opera che sta in piedi in conseguenza di una situazione dolorosa. Pensi a Giulietta e Romeo: se non ci fosse il veto assoluto da parte delle famiglie e il rischio di essere linciati nel farsi vedere l’uno con l’altra, tutta la storia sarebbe banale. Se non c’è il pericolo dove trovi il movente, la macchina che muove il tutto?
Però non mi sembra che il tragico manchi in questo periodo...
Io ho vissuto una situazione analoga alla fine della guerra. C’era moltissima gente disperata, costretta a svendere la propria casa a qualche furbetto per l’impossibilità di ricostruirla o di restaurarla dopo le bombe. La crisi era spaventosa. Eppure quando andavi a fare uno spettacolo e toccavi certi punti la gente esplodeva.
Vuol dire che quella di oggi è una crisi meno grave?
Voglio dire che il pubblico di oggi è stato addormentato, drogato pian piano dalle banalità, dall’odio, dal sentirsi impotente di fronte ai lazzi del potere. Il potere gestisce, promette, racconta favole e tu vedi un sacco di gente che ha già subìto lo stesso trattamento, che ha già sofferto di menzogne e che pure torna ad accettare la menzogna come fosse un piacevole trastullo.
PINTUSdario fodario fo e grilloluca e paolo 2
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