franca valeri

"LA NOSTALGIA, A UNA VECCHIA COCCIUTA COME ME, FA DA BADANTE” - FRANCA VALERI SI RACCONTA - “IL PIAGNISTEO MI DA' FASTIDIO. LASCIAMO LE LACRIME AI GIOVANI PER TUTTO QUELLO CHE GLI STA CAPITANDO”- “PROVO NOIA PER IL PROGRESSO OSTINATO, PER LE BANALITÀ TELEVISIVE, PER I CIARLATANI DELLA POLITICA CHE HANNO SCAMBIATO IL PARLAMENTO PER UN TEATRO...”

Antonio Gnoli per la Repubblica

 

FRANCA VALERIFRANCA VALERI

I gatti sono stati la sua vita. Come lo furono Vittorio Caprioli e Maurizio Rinaldi. Ma non sarebbe giusto tralasciare la cosa più importante che Franca Valeri ha avuto in sorte: il teatro. Potrà sembrarvi una frase enfatica. Ma cosa c' è di enfatico in un amore dichiarato con intelligenza e sommessa ironia?

 

Riproposto ora in un piccolo libro per Einaudi - La stanza dei gatti - dove il teatro è rappresentato come un vecchio signore, magari un po' stanco ma al tempo stesso intramontabile. Guardo questa donna ormai fragile, percepisco la fatica che accompagna le parole e i pensieri lucidi strappati a una infermità che indossa con tranquillità; penso alle luci del palcoscenico che hanno illuminato la sua lunga vita.

 

franca valerifranca valeri

La piccola casa in cui vive è accogliente: i gatti sono nella loro stanza; il cane Aroldo - un nome, dice, di ascendenze verdiane - ronfa tranquillamente sul divano: « è un Cavalier King Charles, sa quei cani immancabili nei quadri di corte? Ne ho cinque, gli altri quattro a Trevignano in campagna, e poi ci sono cani di altre razze, li salvo e li accudisco. Fanno parte della mia vita che è stata lunga e, devo riconoscere, fortunata».

 

Quanto fortunata?

«Parecchio, sospetto. Lo sono stata per tutte quelle occasioni che si sono presentate senza che le determinassi. Poi, oltre alla fortuna, c' è il talento senza il quale in un mestiere come il mio non si va da nessuna parte».

 

Il talento ha una definizione?

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«Possiamo sostituirlo con bravura, creatività, istinto e, nei casi più rari, genialità. Ma alla fine è una condizione inconoscibile. Come la grazia che si va a posare dove vuole».

 

E lei come ha scoperto di averlo?

«Non l' ho scoperto, nel senso che non è una condizione a parte o che si aggiunge alla psiche. Recitando avvertivo l' estrema naturalezza con cui la voce accompagnava il corpo e la gestualità di quest' ultimo. Sentire tutto questo equivale all' ascolto del suono delle campane la domenica mattina».

 

Come fosse un richiamo religioso?

«Più che religioso parlerei di sacro. Sono convinta che l' origine del teatro si collochi in quell' indefinibile momento. Senza sacralità non si capirebbero i riti che vestono il teatro e la crudeltà che lo segna. Non era Antonin Artaud che parlava di teatro della crudeltà?».

 

È a quello che si riferisce?

«Intendo crudeltà non come sadismo ma necessità: se sei posseduto da quel demone non puoi fare altro che sottometterti alla sua forza. Sono convinta che il teatro sia il modo più importante che sia stato offerto a chi crede di avere qualcosa da dire».

 

FRANCA VALERI ALBERTO SORDIFRANCA VALERI ALBERTO SORDI

Più importante della letteratura?

«Altrettanto importante, ma certamente collocabile prima della letteratura».

 

Lei recita ancora?

«Non più. Sono caduta, qui in casa, il 21 ottobre dello scorso anno. Rottura di cinque costole e una riabilitazione lenta e parziale. Devo stare ferma. Non mi lamento. Se c' è una cosa che mi dà enormemente fastidio è il piagnisteo dei vecchi. Lasciamo le lacrime ai giovani. Loro hanno diritto di piangere con quello che gli sta capitando. Noi no».

 

Non trova che ci sia un eccesso di retorica sui giovani?

«Forse, ma dopotutto se non hanno un futuro, la domanda è: chi glielo ha rubato? Mi piacciono i giovani, mi circondo delle loro attenzioni. Racconto loro cose che non sanno, che neppure immaginano siano mai esistite. Mi sento una specie di portabandiera del passato».

FRANCA VALERIFRANCA VALERI

 

Com’era da giovane?

«Spiritosa. Ma lo ero anche da bambina. Già allora pensavo di voler recitare. Cioè, volevo rendere il mio pensiero qualcosa di esprimibile agli altri. Non ho mai avuto dubbi su questa vocazione. Ma è stato difficile darle una voce e un corpo».

 

Perché?

«Sono nata alla fine della Prima guerra mondiale. Esattamente nel 1920. Poi arrivò il fascismo che scambiò la vita delle persone per un teatro permanente e mediocre. Dovetti attendere il dopoguerra. E fu davvero un bel periodo: un’epoca certo dura ma felice».

 

I suoi come reagirono a quella voglia di fare teatro?

COPERTINA DEL LIBRO DI FRANCA VALERICOPERTINA DEL LIBRO DI FRANCA VALERI

«Mio padre reagì male. Oltretutto, aggiunse con una certa ironia, non c’erano precedenti in famiglia. Gli feci notare che non era del tutto vero: una lontana cugina, Fanny Norsa, che era vissuta in Inghilterra, aveva calcato il palcoscenico come ballerina. La verità è che a mio padre sembrava impossibile che io avessi le qualità per recitare. Poi ebbe modo di ricredersi».

 

Quando?

«Una sera venne a teatro a sentirmi. Notò che la gente mi seguiva divertendosi e applaudendo. Il giorno dopo mi disse che aveva riposto molte ambizioni su di me e che dopo avermi visto attrice aveva avuto la certezza che non sarei fallita».

 

Cosa faceva suo padre?

«Era ingegnere, fu un importante dirigente della Breda. Allontanato dal posto di lavoro per ragioni razziali».

 

Foste perseguitati?

«Ce la siamo sempre cavata. Alcuni amici fidati aiutarono mio padre, mia madre, mio fratello e me a riparare in Svizzera. Anche in quell’occasione fui fortunata, mi venne risparmiato il dolore atroce delle tante famiglie ebree disperse, distrutte e annientate. Finita la guerra tornammo in Italia».

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Cominciò allora la sua carriera?

«Avevo recitato, ma niente di impegnativo. Divenni amica di Vittorio Caprioli che aveva già maturato qualche esperienza teatrale. Era simpatico, brillante, fantasioso. Ci dicemmo che era venuto il momento di trovarci un lavoro e passammo in rassegna gli attori che avrebbero potuto aiutarci. La scelta cadde su Sergio Tofano».

 

Quello del “Signor Bonaventura”?

«Aveva creato una maschera che divenne popolarissima sul Corriere dei piccoli. Alla fine, dopo parecchi assalti, Vittorio lo convinse a fare compagnia con noi e uno dei primi spettacoli che allestimmo fu proprio Bonaventura. Ricordo che uno dei ruoli che interpretai fu il cane bassotto, il che vista la mia passione per gli animali mi sembrò gravido di conseguenze».

 

Con Caprioli vi sposaste.

«Il nostro matrimonio durò un po’ meno di quindici anni e poi ci siamo separati, andando ciascuno per la propria strada. Lui con le sue storie io con le mie. Senza rancori né complicazioni. Anche perché trovai un nuovo compagno, Maurizio Rinaldi, un musicista che seppe appagare l’altra mia grande passione: l’opera».

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Erano molto diversi?

«Direi di sì, ma erano uguali in fatto di tradimenti. Specialisti in adulterio». Ne ha sofferto? «Non più di tanto, la gelosia passava rapidamente e poi cosa vuole gli uomini sono dannatamente esibizionisti».

 

Non ritiene che Caprioli sia stato un grande attore ma sottovalutato?

«Più che sottovalutato incompreso. Aveva una istintiva profondità nell’interpretare certi personaggi, rara in quel mondo. Oltretutto è stato un bravissimo regista di cinema. Ci sono almeno tre suoi film che reputo bellissimi».

 

Mi viene in mente “Splendori e miserie di Madame Royale”.

«Magnifico, una storia di travestitismo tra il grottesco e il dolente senza eguali. Con un Ugo Tognazzi insuperabile nella parte di Madame Royale. Dati i tempi non era semplice affrontare le problematiche di quel mondo».

 

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Era la prima volta credo che in Italia si rappresentavano delle drag queen.

«Il film uscì nel 1970, oltre che regista Vittorio era anche uno degli interpreti di questa stravagante comunità omosessuale: si era dato il nome piuttosto pittoresco di “Bambola di Pechino”. Ma il suo film, cult anche per i più giovani, è Parigi o cara dove io interpretavo il ruolo di una svagata prostituta sui cui tratti avrei ricamato il personaggio della Sora Cecioni».

 

La mitica Cecioni che esordiva al telefono con “Pronto mammà”.

«Già, il personaggio fu ispirato da una mia donna di servizio, oggi guai se le chiami così, Renata. Una bella cinquantenne, vedova, prosperosa, con ossigenatura e permanente fatta in casa. Fu lei il mio modello. Ancora oggi la penso con affetto e gratitudine. Ma so che quel mondo non esiste più».

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Come definirebbe la comicità?

«Certamente è un istinto. Poi c’è la gioia di divertire il pubblico con qualcosa di tuo. C’è gente che incontro o che mi scrive per ringraziarmi di quel poco o tanto che le ho donato».

 

Lei ha lavorato tantissimo con Alberto Sordi. Cosa conserva di quel rapporto?

«Se non ricordo male, credo di aver fatto sette film con lui. Mai uno screzio, una insofferenza, una caduta di stile. Certamente fu un comico di straordinario talento. L’ho amato molto meno quando si mise in testa di fare la regia dei propri film. Aveva un tale potere sul pubblico che tutto gli era permesso e perdonato. Ma ho lavorato anche con Totò: davvero unico. La sua comicità si fondeva con i tempi della tradizione del teatro napoletano. In privato era molto diverso, come afflitto da una seriosa malinconia. E poi c’è De Sica che per me è stato un idolo. Oltre che recitare sapeva far recitare e questo non è da tutti».

 

Ha lavorato anche con Eduardo De Filippo?

«Presi parte a Questi fantasmi, ma a me piaceva soprattutto Peppino».

 

Ha mai capito perché litigarono?

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«Rivalità, incomprensione, stanchezza. Chi lo sa. Il nostro è un mestiere che può molto innervosire. Comunque, senza togliere l’aura ai due fratelli, ritengo che la più straordinaria dei tre fosse Titina. E loro lo sapevano».

 

Le accade di rivedere i suoi vecchi film?

«Non ho molto piacere a rivederli. Poi, se qualcuno insiste, capita che torni sui luoghi del delitto e finisce che mi ci appassiono. Siamo deboli, umani e un po’ vanitosi, no?».

 

Prima si accennava alla gelosia che è un tratto ricorrente tra coloro che recitano in teatro

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«Sono sempre stata immune da questo sentimento. Anzi, ho cercato spesso di voler bene e farmi voler bene. Noto, con soddisfazione, che invecchiando il mio giudizio conta per le altre, per quelle attrici che sono agli inizi o nel pieno della loro attività».

 

Si sente vecchia?

«Lo sono, è un fatto. Le leggi della natura comprendono la decadenza. Ma il punto è come frani. O, se vuole, come si protegge la propria dignità di donna e di artista».

 

In questo nuovo libro si definisce una “donna sola”.

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«Ho avuto una carriera quasi sempre solitaria, fatta più di monologhi che di incontri. Quanto al privato, la mia vita mi ha riservato il destino di essere lasciata sola. Soprattutto affettivamente. Quando perdi i genitori, gli uomini che hai amato, gli amici che non ci sono più, la solitudine diventa una condizione imprescindibile. Però non ho mai avuto la sensazione di essere abbandonata».

 

Vuole dire che non le pesa?

«So che esistono persone per le quali la solitudine è come una mazzata sulla fronte. Non fanno che lamentarsene. Io posso stare sola sia perché non ho perso il senso dell’amicizia, sia perché continuo a scrivere. Mi duole soltanto non poter più leggere».

 

C’è un libro che è stato fondamentale per la sua crescita?

«Ce ne sono diversi. Ma per forza di cose il libro della mia vita è stato la Recherche. Lo lessi tutto durante la guerra, diciamo nel mio esilio dorato in Svizzera. Mi entusiasmò, per la lingua francese che esprimeva e per quel senso straordinario che Marcel Proust attribuì al tempo del ricordo».

 

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Cosa intende dire?

«Quella lettura tra le tante cose mi ha anche insegnato il valore del tempo. Mi ha educato a ricordare. Molte cose della nostra vita ci sfuggono e a volte le ritroviamo improvvisamente. Ma dobbiamo essere pronti a carpirle. Mi piace molto in questa fase della mia vita ricordare. A volte quando non prendo sonno, o mi sveglio improvvisamente, comincio delle lunghe “passeggiate” notturne».

 

È come liberare la propria mente.

«La mente si rigenera nel ricordo e ci dimostra che siamo ancora vivi». Lo dice con una punta di nostalgia. «È una sorella che a una vecchia cocciuta come me fa da badante. Però non bisogna cercare la pietà che è quasi sempre falsa o inutile».

 

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Accennava allo scrivere.

«Sto lavorando a un nuovo libro. Vorrei intitolarlo: Il secolo della noia».

 

Quale secolo?

«Quello in cui siamo entrati. Aspettavamo il Duemila con la speranza che avremmo visto realizzate cose straordinarie. E tutto lo straordinario che c’è stato vomitato addosso è solo qualcosa di ripugnante. Ci resta questa noia. Noia per il progresso ostinato, per le banalità televisive, per le cattive notizie, per i ciarlatani della politica che hanno scambiato il Parlamento per un teatro, ma non sanno nulla del vero teatro. Ogni tanto mi chiedo: risorgeremo da tutto questo tedio? Non ho una risposta, ma ci sto seriamente pensando».