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Nadia Fusini per “la Repubblica”
Grazie alla sua cura sapiente, Barbara Lanati, americanista di rango, ci introduce da perfetta ospite al volume delle Lettere di Edgar Allan Poe, che traduce insieme con Nicoletta Lucchetti e Laura Traversi per i tipi del Saggiatore. Non sono tutte le lettere di quell'"adorabile bugiardo" (così Lanati definisce Poe), ma sono abbastanza (più di 700 le pagine) per entrare in una vita travagliata quant' altre mai, perseguitata da un guignon feroce, che intorno al volto del protagonista disegna l' aureola che ispirerà il fraterno e incondizionato amore di Baudelaire.
Figlio di due poveri attori senza arte né parte, che muoiono uno dopo l' altro a distanza di un anno, il neonato orfano trova casa temporanea presso John e Frances Allan, ma anche da questo nido sarà "deietto". E nell' atto dell' espulsione si dovrà avvertire la forza di chi vi riconosce il segno del destino.
Non a caso, se non la prima, la quinta delle lettere del volume contiene la dichiarazione categorica da parte del figliol prodigo al patrigno: "Ho preso finalmente una decisione - lascio la vostra casa e tento di trovare un posto in questo grande mondo".
"La mia decisione è irrevocabile" insiste il figlio tradito, che accusa: "per capriccio avete infranto le mie speranze". Non voleva far altro che studiare; tutti i suoi pensieri erano rivolti all' impiego delle proprie energie per eccellere nel mondo, ma il patrigno, dimostrando di non provare "alcun affetto" per lui, l' ha esposto all' arbitrio e al capriccio della sua autorità, e gli ha tolto ogni possibilità - perché l' affermazione che Poe cercava "non si può conseguire senza una buona Istruzione".
In tale volontà il padre non l'ha sostenuto, l' ha lasciato cadere e l' ha esposto così ai casi e agli accidenti della fortuna. Eppure il giovane Edgar, che all' epoca in cui scrive la lettera ha 17 anni, era bravo a scuola, in particolare in latino e in francese. E aveva l' intenzione di migliorare vieppiù e di farsi onore. Invece, si ripete l' esperienza traumatica dell' abbandono. "Se decidete di abbandonarmi" ripete, incapace com'è di separarsi da chi lo respinge, "allora vi dico addio".
"Non avevo idea di che cosa fosse l' angoscia" ripete desolato a questo padre non padre, che però chiama "papà" e da cui continua a pretendere soldi, per sopravvivere. I debiti e la fame e la solitudine assillano il figlio reietto. Anche perché i soldi che ottiene li dissipa, raccontando però come gli vengano rubati, o svaniscano in incidenti sordidi di cui è vittima. E noi non capiamo se dice o no la verità. E pian piano si insinua nella lettura dell' epistolario un sospetto: è un bugiardo che mente, o un fantasista? Racconta, o inventa? E qual è il discrimine?
Quando dice al "caro papà" che il generale Benedict Arnold era suo nonno, ci crede davvero o se lo inventa? È tanto più difficile rispondere perché noi conosciamo Poe come lo scrittore che diventerà, e sappiamo quanto ami la dissimulazione, la fantasia disinibita e l'immaginazione folle.
E ci viene da pensare che più della verità adori la finzione, gli piaccia fare colpo, camuffarsi. In fondo, è figlio di attori; forse ce l'ha nel sangue quell' istinto al gioco; quell'impulso, cioè, a non essere chi è, a mascherarsi. Siamo abituati a queste "finte" nei racconti, e ora scopriamo anche nelle lettere le mille maschere dietro cui si cela.
Per ingenua disposizione d'animo ci aspetteremmo che chi dice "io" per lettera non menta, ma si riveli nell' intimità di una relazione autentica che sceglie di intrattenere con gli altri. Ci aspettiamo, nella scrittura epistolare, un tono di verità. Un timbro confessionale. Sempre ammesso che si riesca, o si voglia distinguere tra verità e menzogna. E non piuttosto intrattenersi, come accade a Poe, nel gioco di ombre che conduce la danza spettrale di parole che inventa ad effetto per esprimere i suoi affetti e le frustrazioni e paure e contraddizioni.
Forse Poe vorrebbe dire la verità, ma una certa mitopoiesi pare spontaneamente intralciare l' intenzione e proiettare la sua mente in più ardite costruzioni fantastiche. Fino a confondere la verità con la bramosia dell' illusione, il pio desiderio con la realtà. Già, la realtà! Come può abitare nella realtà chi si sente sempre esposto alla contraddizione dell' indolenza congenita che tramuta in frenesia creativa? È la tortura di Poe: Poe è crocefisso al paradosso di chi vive fantasticando, e al tempo stesso è un assoluto materialista.
È inetto e frenetico al tempo stesso; un eremita, ma non a Walden, a New York; un parassita che vorrebbe abbandonarsi alla tendenza all' indugio (uno dei suoi tanti difetti, spiega), epperò in quell' abbandono, crea. Non ha altra smania che andare a zonzo, perdersi nei boschi; però sta lì confitto nella sua miseria a New York. Malato, depresso, pazzo. "Aiutatemi" chiede agli amici, "ora, subito, perché proprio adesso sono in pericolo". Ma non c' è al tempo chi lo ascolti.
Se non Baudelaire, un poeta come lui, che oltreoceano sa cogliere nella sua Nervenkunst l' arte moderna - che non può che essere nevrile, e nevrotica. Il genio folle e maledetto, il vagabondo, il farabutto, il bugiardo, l' ambizioso malinconico, solitario, angosciato, divorato dal suo demone, è tutto qui nelle lettere: un essere sensibile per costituzione, e di natura straordinariamente nervosa, che cerca le parole per mettere il cuore a nudo, nella sua verità di muscolo che cerca l' amore.
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