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Marco Giusti per Dagospia
Moonlight di Barry Jenkins
Tempo di Oscar. Lo sfidante più temibile di La La Land è questo piccolo gioiello che scava sulla vera identità di tanti ragazzi neri cresciuti nel ghetto e solo mascherati da supermachi e da gangster, Moonlight, opera seconda di Barry Jenkins, forte di ben otto nominations (film, regia, sceneggiatura, montaggio, musica, attori non protagonisti), di un Golden Globe come miglior film dell’anno, già visto al Festival di Telluride e film di apertura, opener, al Festival di Roma di Monda.
Salutato ovunque come un capolavoro, è un bellissimo dramma realistico sulla crescita di un ragazzo gay nero di Miami che si ritrova a nascondere la propria sessualità dietro un personaggio di duro spacciatore supermacho con tanto di denti d’oro e anelloni.
Ma, oltre alla tematica, di per sé abbastanza innovativa, è la costruzione del racconto e la strepitosa messa in scena di Jenkins a convincerci. Il film, tratto dalla commedia “In Moonlight Blackboys Look Blue”, scritta da un giovane commediografo nero di Miami, Tarell Alvin McCraney, che è anche produttore assieme a Brad Pitt, è diviso in tre capitoli che seguono il piccolo Chiron, figlio di una tossica, Naomie Harris, dai nove anni alla maturità.
Nel primo capitolo, “Little”, Chiron, interpretato da Alex Hibbert, è un bambino afasico, che ha già qualche problema a scuola perché troppo timido, diviso fra una madre fuori di testa e un 'padre adottivo' Juan, cubano e spacciatore, lo strepitoso Mahershala Alì (nomination per lui e per Naomie Harris). Che gli insegna non solo a nuotare, ma anche a accettare con orgoglio quello che è. “Che vuol dire frocio?”, chiede Chiron - “E’ la parola che si usa per denigrare le persone gay”.
Qualsiasi cosa possa diventare Chiron, gli dice Juan, deve essere una tua scelta, non l’imposizione del mondo esterno. Nel secondo capitolo, “Chiron”, il ragazzo è diventato un teenager, lo interpreta Ashton Sanders, Juan è morto, la madre è sempre più tossica, e i ragazzi della scuola lo massacrano ritenendolo gay e debole. Chiron scopre la propria sessualità, o crede di scoprirla, con un compagno di classe più gentile, Kevin.
Ma il cattivo della classe convince proprio Kevin a menare a sangue Chiron. E Kevin lo fa. Solo che il giorno dopo, Chiron spacca una sedia in testa al cattivo e finisce al riformatorio. Nel terzo capitolo del film, “Black”, sono passati 17 anni, Chiron è diventato un nerboruto gangster, lo interpreta un fenomenale Trevante Rhodes, vive per strada e controlla lo spaccio in un quartiere di Atlanta, in Georgia.
Riceve una telefonata dal vecchio amico Kevin, André Holland, che ora fa il cuoco sfigato a Miami e che lui non sente da quando è finito in galera. E’ bastato sentire una canzone sul juke box, “Hello Stranger” di Barbara Lewis, e Kevin corre da lui al ritmo di “Ay, Paloma” di Caetano Veloso. Malgrado i denti d’oro, la capezza al collo e il macchinone, Chiron, come Kevin, non vive certo la vita che avrebbe voluto vivere, ma quella imposta dagli sguardi degli altri.
Le cose che ci colpiscono di più del film, ripetiamo, più che la storia, che è un trattato coraggioso sulla mascolinità afro-americana, sono il grande impianto visivo, la fotografia è di James Laxton, e una messa in scena che tratta il tema, ultra-realistico, come un melodramma alla Douglas Sirk di rara forza. In ogni scena Chiron si carica di una violenza che non esploderà mai e dovrà comunque sempre nascondere i propri desideri all’interno di una società violentissima. In sala dal 16 febbraio.
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