DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Marco Giusti per Dagospia
T2 Trainspotting di Danny Boyle
Canzoni e nostalgia a Sanremo 2017 e rock, ma anche droga e Nostalgia canaglia anche al Festival di Berlino col sequel, definito dagli stessi autori post-mortem di Trainspotting. Venti anni dopo. La nostalgia e il già visto sono i maggiori pericoli che ti possano capitare quando ritorni sui personaggi di un film, molto amato, come questo.
Pericoli maggiori dell’opportunità e del tradimento, gli elementi narrativi che tengono insieme, anche nei dialoghi, questo bellissimo, cupo, T2 Trainspotting, passato alla Berlinale fuori concorso ieri, che Danny Boyle riesce a costruire con il suo vecchio Trainspotting riuscendo miracolosamente a riunire proprio tutto il suo cast.
Ewan MacGregor, Ewan Brenner, Johnny Lee Miller, Robert Carlyle, Kelly MacDonald, il suo sceneggiatore, John Hodge, il suo autore, Irvine Welsh, e perfino il vinile di Iggy Pop ancora sul piatto (“Lust for Life”). Ritrova intatta anche l’Edinburgo malata e violenta di venti anni fa, in piena crisi da Brexit e da Theresa May, dove l’unica che ha un vero lavoro e sembra non toccata da un senso di morte è la Diane Coulson di Kelly MacDonald.
Alla fotografia realistica e sporca di Brian Tufano, Boyle sostituisce però quella più artisticoide di Anthony Dod Mantle, da anni il suo direttore della fotografia. Difficile, davvero, riprendere i personaggi e gli ambienti di Trainspotting, ma anche dei suoi primi film, dopo vent’anni passati, sia da Boyle che dai supo protagonisti, tra grosse produzioni hollywoodiane, serie e miniserie. Il Mark Renton di Ewan MacGregor si porta dietro la faccia da Obi Wan Kenobi quando entra nella casa da tossico di Spud, Ewen Brenner o nel pub del truffatore Simon, Johnny Lee Miller, ma anche Brenner e Miller si portano dietro i loro film americani.
Solo Robert Carlyle, di dieci anni più vecchio nella realtà, dei soci, sembra davvero rovinato da questa pausa di venti anni, e il suo Franco è una specie di violento rottame del passato che scappa dalla galera e cerca vendetta (e somiglia maledettamente a D’Alema a caccia di Renzi).
Dovendo evitare accuratamente nostalgia e già visto, Danny Boyle e John Hodge riescono a ripartire proprio dall’aspetto più giovanile e compatto di Ewan MacGregor, da star diciamo, per farne lo stronzo che è scappato con il bottino, 16 mila sterlino, senza dividere con nessuno, lasciando gli amici nella merda.
Buona opportunità narrativa per riprendere il gruppetto da dove lo avevamo lasciato. E puntare sull’azione e su tutti i nuovi possibili tradimenti che manderanno avanti la storia. Diciamo solo che c’è un nuovo colpo, un nuovo progetto, una donna pericolosa, Veronika, la bellissima bulgara Anjela Nedyalova, fidanzata per nulla fedele di Simon, e una serie di inseguimenti che rimetteranno in moto.
Ma conta davvero questo meccanismo narrativo? O a Boyle e ai suoi amici scozzesi interessa altro? Come raccontare grazie al film i venti anni di una Scozia che sembra proprio uguale a allora e per questa più morta di prima. O costruire un viaggio continuo tra passato e presente dove viene usato ogni possibilità di tecnica visiva. Ecco.
Al di là della riuscita narrativa del film, del suo senso tragico di sconfitta di una generazione, che funziona anche nei rapporti tra i personaggi, oltre che nella loro precisa ricollocazione nel territorio, Boyle ci mostra una gran voglia di stupirci, di sperimentare, di ritornare il regista giovane di venti anni fa. E andiamo giù di Blondie, The Clash, Queen, Bowie, ma anche di Young Fathers, di Underworld. Una colonna rock che non finisce mai.
E il tempo per l’odiata nostalgia è proprio lì, nell’intenzione di rimettere sul piatto Iggy Pop o lasciarlo nel passato. Che fare? Ma come non si può rimetterlo sul piatto e giocare col proprio passato… Decisamente più riuscito e più sentito di quel che un po’ tutto il pubblico di allora si sarebbe aspettato, Boyle e tutto il suo cast compongono qualcosa che forse dirà poco alle nuove generazioni cresciute col cellulare in mano, ma ancora molto ai vinilidipendenti e ai quaranta-cinquantenni sopravvissuti alle pere e a una rivoluzione che hanno (abbiamo?) perso non ora, ma allora.
Come dimostrano tutti i Trump-May-Renzi di oggi. L’occasione e il tradimento rimangono dei modelli narrativi e delle lepri di pezze per far correre dei personaggi che sono fermi da venti anni. E già allora non sapevamo dove andare e dove nascondersi. Ma il rock salva tutto. In sala, da noi, dal 23 febbraio.
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