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Marco Giusti per Dagospia
Twin Peaks: The Return
“Il mio ceppo ha un messaggio per te”. E siamo già lì incantati, totalmente presi dalla macchina di cinema di David Lynch che torna a Twin Peaks 25 anni dopo, proprio come aveva predetto Laura Palmer all’Agente Dale Cooper. Un viaggio nel tempo, nel passato e nel futuro, attraverso la camera rossa dove, curiosamente, il tempo non si è affatto fernato. Così Laura Palmer è invecchiata come è invecchiato l’Agente Cooper, “ma non eri morta?”. Lynch, faticosamente, rimette in piedi non una storia da dove l’aveva lasciata, ma tutto il suo cinema da dove l’aveva lasciato. E perfino se stesso.
Come, giustamente, scrive, Richard Brody sul “New Yorker”, “Il ritorno di Twin Peaks è di gran lunga meno importante del ritorno di David Lynch, e quello che lui riesce a fare con le serie è meno affascinante e meno emozionante di quello che fa cercando dentro se stesso”. Non a caso lo stesso titolo suona The Return. E intorno all’idea di ritorno si muove sia Dale Cooper, da 25 anni chiuso nella camera rossa, mentre il suo doppelganger, probabilmente scorrazza sugli schermi, sia lo stesso Lynch, fermo in realtà dal 2006, l’anno di Inland Empire.
L’idea del ritorno muove quindi, anche se con molta fatica, presenze fantasmatiche, vivi e morti, sia come attori sia come personaggi. E’ un gigantesco scuotimento di un cinema dalle sue radici. Tornano volti come Russ Tamblyn, Ray Wise, Grace Zabriskie, Richard Beymer, Balthazar Getty, addirittura Everett McGill nel ruolo di Big Ed Hurley, Catherine Coulson e il suo ceppo, Phoebe Augustine che avevamo lasciato nel fuoco di Cammina con me.
E si fondano con nuovi arrivi, forse ripresi da altri immaginari, come Jennifer Jason Leigh o Meg Foster o Ashley Judd e Naomi Watts. Per lo spettatore, più o meno lynchiano, è una sorte di festa epocale. Ma, curiosamente, come accadde già per la prima serie, il gioco delle scomparse degli attori, in qualche modo definisce ancora una volta, la vita dentro lo schermo e il grande sogno del regista di un cinema così vicino alla vita.
Le dediche ai cari scomparsi Miguel Ferrer e Catherine Coulson, così, ci commuovono proprio perché qui ci appaiono come fantasmi per l’ultima volta. La signora del ceppo, già malatissima, amica di Lynch dai tempi di Eraserhead e moglie di Jack Nance, chiama lo sceriffo indiano Hawk nella prima puntata e ci riporta a Twin Peaks. Ci riporta a qualcosa che si è perduto laggiù. Come Jack Nance, o certi vecchi attori che nella prima serie apparivano già come fantasmi di se stessi e del loro cinema, penso a Hank Worden, caratterista fordiano.
*** Seguono (lievi) spoiler ***
Perché, in qualche modo, questa serie è stata e è ancora una sorta di meravigliosa e gloriosa macchina di cinema anche amato da Lynch, E di musica. Sappiamo che anche David Bowie si era dichiarato pronto a riprendere il suo ruolo. E dovrebbe ricomparire anche Julee Cruise. Solo nell’incredibile terza puntata, quella che vedrà il ritorno alla vita dell’Agente Cooper e la cattura nella camera rossa del suo doppelganger malefico, assistiamo al miracolo della rinascita dell’eroe all’interno della sua serie.
Kyle MacLachlan, attore feticcio di Lynch, faticosamente, attraverso qualche buco misterioso che collega la camera rossa lynchiana al set della serie, deve rientrare nel suo abito. Il suo doppio si fa chiamare qui Dougie, ha anche una macchina che si chiama Dougie e una bella ragazza nera, Jade, Nafessa Williams, che sta facendo la doccia. Proprio da Jade, l’Agente Cooper, riceverà una banconota da cinque dollari e un ordine, “Call for help”, chiama aiuto.
Cooper riparte da zero, con un paio di scarpe che non sono le sue, i cinque dollari e un ordine. E’ qui che Lynch riprende il suo cinema, riprendendo il suo personaggio, dopo due puntate di attesa e di gestazione profonda dove sembra quasi confrontarsi con quello che oggi è diventato il cinema e sono diventate le serie. E’ ovvio dire che con Twin Peaks sono nate le serie televisive moderne, un elenco che arriva a Fargo e a True Detective.
Come è ovvio, almeno per noi, dire che con Blue Velvet e Wild at Heart è nato gran parte del cinema di Tarantino. Ritornando a Twin Peaks, Lynch deve fare quindi i conti con quello che è capitato in questi 25 anni. Curiosamente lo fa da Cannes, proprio dove vedemmo il passaggio da Lynch a Tarantino con l’esplosione di Pulp Fiction.
Ma ci sono stati anche Wes Anderson, Paul Thomas Anderson, i fratelli Coen e l’invenzione di Fargo. Credo che la fatica maggiore che mette in scena Lynch sia proprio il suo ritorno faticoso nel cinema sentendo il peso non della sua assenza, ma di quanto è successo nel frattempo.
Per lo spettatore è uguale. E lo spettatore deve comunque alternare il piacere di rivedere Lynch e Twin Peaks col piacere di fare da subito un confronto con quello che stiamo vedendo, ad esempio Fargo 3. Per questo, come diceva Mizoguchi, davanti a ogni nuovo vaso, il vasaio si deve prima sciacquare gli occhi per avere una visione limpida di quello che sta facendo.
Lynch ci sta portando di fronte a una creazione che prevede più o meno un momento di pulizia analogo, una abluzione da tutto quello che abbiamo visto nel frattempo. Così saremo come Dale Cooper che rientra in scena con una banconota e un ordine. Call for Help.
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