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Marco Giusti per Dagospia
Silence di Martin Scorsese
Quando, dopo due ore di silenzio, Dio spiega al protagonista, padre Rodrigues, che lui è sempre stato a suo fianco, che è sempre stato lì mentre lui sui soffriva, magari attraverso la presenza del suo personale Giuda, Kichijiro, che lo ha sempre tradito e gli ha chiesto sempre, dopo, confessione e perdono, il film finalmente si apre.
E, forse, anche noi spettatori intuiamo a cosa sia veramente interessato Martin Scorsese che per tanti anni ha inseguito questo Silence, ponderoso, complesso viaggio nel silenzio di Dio, una non-voce che diventa voce solo grazie alla fede e alla comprensione dell’altro, ma anche kolossal storico-cattolico tratto dal fondamentale libro di Shusako Endo del 1966, già portato sullo schermo da Masahiro Shinoda nel 1971, sul martirio dei cristiani convertiti e dei missionari gesuiti nel Giappone del ’600.
Nessun film di Scorsese, che per me è forse il più grande regista vivente, che non ci ha mai tradito, da Mean Streets a Il lupo di Wall Street ai pilot meravigliosi di Boardwalk Empire e Vinyl, nemmeno L’ultima tentazione di Cristo o Kundun, ha questa ossessione ben visibile sia per la ricerca della fede, cioè per la ricerca della voce di Dio che spezzi il nostro non sentire altro che il suo silenzio, sia per la ricerca dell’immagine di Dio in noi stessi.
Certo, in Mean Streets, Harvey Keitel era ossessionato, da bravo ragazzo cattolico newyorkese, dalle immagini di Cristo nella sua Chiesa, e in Good Fellas, la scena più incredibile del film, è costruita interamente sul silenzio di De Niro che deve rivelare a Ray Liotta che lo vuole uccidere. Lì, il silenzio, diventa un vero e proprio personaggio del film e domina la scena più delle tante canzoni meravigliosi che abbiamo ascoltato.
Ma nessun film, ripeto, ha l’ossessione di padre Rodrigues per voler capire dalla voce di Dio la strada da prendere, il percorso della sua fede. E Scorsese, stavolta, non si permette i suoi stupefacenti giochi di montaggio, le sue costruzioni musicali, le sue inquadrature meravigliose, anche se ha al suo fianco la sua montatrice di sempre, Thelma Schoonmaker, l’amico musicista Robbie Robertson, un direttore della fotografia come Rodrigo Prieto (tutto girato in 35 mm), il fidato Dante Ferretti.
Si permette, vero, qualche citazione, da Il cardinale di Otto Preminger (un piano dall’alto, mentre i due padri gesuiti scendono le scale), da Ugetsu Monogatari di Kenji Mizoguchi (la barca nella nebbia prima di arrivare a Goto), sparge nel film volti di registi amici, come Shinya Tsukamoto che interpreta il cattolico Michizo, o di attori feticcio, come Tadanobu Asano, protagonista di Ichi the Killer, affida a un comico popolare giapponese, Issey Ogata, il ruolo di Inoue l’inquisitore, forse ripercorrendo il capolavoro di Oshima, Furyo, dove il viaggio del protagonista è alla ricerca della voce dell’amore e della verità di se stessi. Magari cita anche gli adorati Dreyer e Pasolini.
Di certo, riprende, come ha ben notato Bilge Ebiri su “The Village Voice”, sia L’ultima tentazione di Cristo che Kundun per definire la sua trilogia della fede in modo che Silence sia il capitolo finale che racchiuda i temi dei due film precedenti. E tutta la costruzione del rapporto fra padre Rodrigues e il traditore Kichijiro ci rimanda così, direttamente, al rapporto di Gesù-Willem Dafoe con Giuda-Harvey Keitel, mentre i dialoghi con il traduttore, Tadanobi Asano, ci dovrebbero rimandare alla ricerca del Budda di Kundun.
Come è importante, anche all’interno di Silence, l’apostasia, il tradimento della fede compiuto come atto d’amore verso il prossimo. Al punto che solo con l’apostasia, e la perdita di identità, capiamo l’importanza di Giuda-Kichijiro.
E’ questo uno dei punti che è piaciuto meno a qualche vescovo, che vede invece nelle figure dei santi martiri cattolici giapponesi la sola epicità del romanzo e del film. Ma Scorsese non si voleva limitare a quello. E di traditori e apostati, come dimostra proprio Good Fellas, ne sa qualcosa.
Nel film, come nel romanzo, che uscì anche da noi, mentre il primo film non è mai arrivato, nel 1640, due giovani padri gesuiti portoghesi, padre Rodrigues e padre Garupe, interpretati da due star giovanili come Andrew Garfield e Adam Driver, partono alla ricerca del loro padre spirituale, Ferreira, Liam Neeson, che si dice abbia abiurato alla fede cattolica in un Giappone ancora feudale che ha deciso di troncare con la violenza la propagazione del cattolicesimo.
Invasi da commercianti olandesi, inglesi, portoghesi, spagnoli, i giapponesi possono accettare lo scambio commerciale (alla fine sceglieranno solo gli olandesi), ma vedono come pericoloso il cattolicesimo che i gesuiti hanno portato tra i contadini arrivando a 300 mila fedeli. Così iniziano a massacrare con crocifissioni, decapitazione e torture varie tutti quelli che non hanno intenzione di abiurare (“kobure”).
I cattolici dovranno calpestare un’immagine sacra, sputare sul crocifisso e svergognare il nome della Madonna. Per capire cosa sia davvero successo a padre Ferreira, Rodrigues e Garupe partono, senza conoscere una parola di giapponese, in una “missione di due” che sarà l’ultima per salvare la Chiesa Giapponese. Incontreranno dei contadini cristiani in due isolette e incapperanno poi nel terribile inquisitore Inoue.
silence andrew garfield martin scorsese
Più che la storia del romanzo di Endo, Scorsese assieme al suo cosceneggiatore Jay Cocks, vecchio critico del “Time” e amico che aveva già scritto con lui Gangs di New York e L’età dell’innocenza, è interessato all’ossessione di padre Rodrigues sulla sua fede e alla sua trasformazione, soprattutto visiva, in Cristo, in martire, in immagine stessa di Dio sulla terra. Rodrigues, da raffinato prete occidentale, non solo non cerca mai di capire il Giappone, ma neanche i cristiani giapponesi che muoiono di fronte ai suoi occhi.
Nella sorgente dove si specchia, vede il suo volto trasformarsi nel volto di Cristo che abbiamo visto, iconico, nella scena iniziale. Un po’ come Joe Pesci che si trasforma, in Good Fellas, nel bandito del primo film western della storia che spara alla macchina da presa in The Great Train Robbery (Edwin S. Porter, 1903) che apriva il film. La sua ricerca della verità, che cerca di descrivere a Inoue e al traduttore, è quasi una ricerca di immagine. Come l’immagine dell’Ecce Homo di Guido Reni che ossessionava Mishima in Confessioni di una maschera o quella di se stesso pronto al seppoku che portò lo stesso scrittore a filmare il suo suicidio prima di compierlo.
La guerra alle immagini della fede porta i giapponesi a distruggerle e i cattolici a conservarle come prova del loro credo. Il percorso che deve fare padre Rodrigues è diverso, e lo capisce solo col tempo. E’ il togliersi tutto, a cominciare dalla sua superbia di prete, dal vedersi glorificato come Cristo nel martirio suo e dei fedeli, fino a perdere la propria immagine di sé per sentire davvero gli altri, perdonare, accettare il destino e udire la voce di Dio addirittura attraverso il Giuda-Kichijiro.
silence andrew garfield martin scorsese
In pratica è credere nel silenzio, sia della voce che delle immagini. Il contrario esatto del cinema, fatto di suoni e di immagini. O la sua negazione totale per accettare il silenzio di Dio come verità.
Forse poteva essere un film più bello, ci arriva in ritardo di 26 anni da quando Scorsese e Cocks lo progettarono, poteva essere girato in portoghese e non in inglese, il cast a lungo sognato era composto da Gabriel Garcia Bernal, Benicio Del Toro e Daniel Day Lewis come Ferreira, anche se i protagonisti sono bravissimi, i gesuiti che parlano inglese sono un po’ fastidiosi, e magari il film funzionerà meglio in italiano (del resto il vero protagonista della storia era un gesuita italiano, Giuseppe Cara, fu Endo a farlo diventare portoghese), ma rimane un grande film. Difficile, da seguire attentamente. In sala dal 12 gennaio. Pace e bene.
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