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Selvaggia Lucarelli per il “Fatto Quotidiano”
selvaggia lucarelli fabio de vivo
Mi rendo conto che di questi tempi affermare che Inside out non sia un capolavoro, suoni popolare quanto esclamare che la Pennetta a giocare a tennis sia una pippa, ma ecco, mi faccio coraggio e confesso di aver molto peccato: sono andata al cinema a vedere Inside out e non mi è parso un capolavoro. Neanche a mio figlio, che ha 10 anni e che è cresciuto a pane e Pixar, ma questa è un’altra faccenda.
E lo specifico perché ho sentito dire più volte “Inside out è un capolavoro” di quanto non abbia sentito dire dalla Boldrini “Serve una seria riflessione”. E se non mi credete andate su Google, digitate “Inside out/ capolavoro” e vedrete che vi usciranno più risultati che digitando “Belen/video hot”. Chiariamo subito una cosa fondamentale: la mia non è la recensione guastafeste di chi s’è asciugata le lacrime nel buio della sala e accese le luci borbotta che rivuole i soldi del biglietto.
Inside out è un bel film. L’idea di raccontare una storia dal punto di vista delle emozioni che popolano la mente di una bambina è complessa e l’operazione è riuscita e coraggiosa. Il problema è che per chi come me ha visto tutti i film della Pixar e ha come suo eroe personale il vecchietto scorbutico di Up – uno che rimasto vedovo, pur di non finire in una casa di riposo o a “Uomini e donne over”, attacca la sua casa a dei palloncini e vola in Venezuela – Inside out ha delle falle imperdonabili.
Intanto è il primo film di Pete Docter (quello di Wall-E, Toy Story, Monsters & coeUp) in cui non riconosci l’impronta del regista, ma molti passaggi dei suoi film precedenti. A un certo punto guardavo Inside Oute dentro di me continuavo a ripetermi quello che mi ripeto ogni volta che sento una canzone di Ligabue: “Sì, bella, ma io questa l’ho già sentita”.
Inside Out, tolta l’idea originale (che poi originale non è visto che negli Anni 90 in America esisteva una sitcom, Ma che ti passa per la testa, in cui il protagonista era guidato nelle sue decisioni da quattro personaggi che rappresentavano le sue emozioni), è un mappazzone ben congegnato e ben scritto in cui tornano tante vecchie idee mascherate da nuove. Inside out è, insomma, Matteo Renzi.
Prendiamo Big Bong, l’amico immaginario di Riley. Quello che rappresenta la fantasia, il gioco, la parte bambina della protagonista. Quello che a un certo punto realizza di non poter fare più parte della vita di Riley perché Riley è cresciuta e se le deve vedere col mondo reale. Quello che insomma, al cinema ci fa piangere che neanche il conguaglio del gas. Beh, Woody di Toy Story era un po’ la stessa zuppa e non serve mascherarlo da elefante rosa confetto per mimetizzare il riciclo.
Idem per la cineproduzione sogni. Divertente l’idea di creare la porta dei sogni e la stanza nella quale il materiale onirico della bambina viene prodotto come fosse un film, ma ricorda molto la porta di Mon - ster & Co, quella che permette ai mostri di accedere alle stanze dei bambini mentre dormono e dunque al loro sonno. Prendiamo poi la grande morale del film: un distacco doloroso può essere causa di solitudine, di tristezza. Quando la tristezza lascia posto alla rabbia, non c’è l’elaborazione del lutto, si diventa distruttivi. Bisogna abbandonarsi alla tristezza e lasciare andare il passato per riaprirsi a nuove emozioni.”.
Poetico, ma era già la morale di Up. E poi ci sarebbe un altro film, non di Pixar, che viene spesso evocato da Inside Out, ed è Se mi lasci ti cancello, film in cui i ricordi della protagonista svaniscono perché vengono cancellate le emozioni che li hanno generati. In Inside Out succede la stessa cosa, la mente di Riley abbandona i vecchi ricordi e questi si sgretolano visivamente (in Inside Out le palline ingrigiscono e si polverizzano, in Se mi lasci ti cancello le immagini ingrigiscono e le case si polverizzano), tanto che a un certo punto ti aspetti che alla fine l’undicenne Riley si fidanzi con Jim Carrey e che lui finisca con Emilio Fede nel Rileygate.
E in un certo senso sarebbe stato un finale più interessante di quello originale, perché paradossalmente, proprio in un film sulle emozioni, manca l’emozione finale. Manca una chiusura della storia, che presumibilmente viene lasciata aperta per un eventuale sequel.
Insomma, Inside out, per scomodare un termine caro al film, è un continuo, piacevole, a tratti geniale déjà vu ed è soprattutto un film monco, in cui il finale lascia intuire che il “dopo” non sarà un film nuovo di zecca, ma solo il prosieguo di quello che l’ha preceduto. Del resto, io ve l’avevo detto che è Inside out è Matteo Renzi.
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